verso l'8 marzo
È il lavoro la grande questione femminile in Italia. Da riportare al centro dell'agenda politica
Il tasso di occupazione femminile nel nostro paese è all’ultimo posto in Europa. Ed è una delle cause delle debolezze della nostra economia. Tanti circoli viziosi. Come uscirne? Con la crescita, le infrastrutture e un cambio culturale
In Italia solo una donna su due di età compresa tra 20 e 64 anni lavora. Il dato è ancor più preoccupante se confrontato con quello dei partner europei: siamo gli ultimi. Per dare un ordine di grandezza, il tasso di occupazione femminile tedesco si attesta al 77 per cento – 25 punti percentuali in più del nostro –, quello francese al 65, quello ellenico al 56. In Grecia la situazione è migliore persino dal punto di visto della dinamica: nell’ultimo decennio l’incremento della quota di donne con un impiego è stato due volte superiore al nostro.
Abbattere questo divario dovrebbe essere una priorità del paese. La bassa partecipazione femminile al mercato del lavoro è, infatti, una delle cause delle debolezze della nostra economia: ovvero crescita bassa, debito alto e forti disuguaglianze. Eppure, di questo tema se ne parla solo quando proprio non se ne può fare a meno, come durante l’8 marzo, la festa della donne.
In quell’occasione vengono (finalmente) messi al centro del dibattito i dati sull’occupazione ma anche tanti altri non strettamente di natura economica a cominciare da quelli sulla violenza di genere che poi, lo si vedrà in seguito, sono legati ai primi. Terminata la giornata, i riflettori si spengono: questo dramma, tutto italiano, ritorna nel dimenticatoio.
La poca attenzione al lavoro femminile da parte della classe politica rivela una mancanza di visione d’insieme. E, soprattutto di strategia a lungo termine. Perché, lo si è detto, un numero esiguo di occupate è una delle cause dei mali italici. Da oramai diversi decenni la nostra economia è avvitata in un circolo vizioso che funziona più o meno nel modo seguente: con meno donne al lavoro si produce meno ricchezza; quindi, le risorse da distribuire sono minori, di conseguenza, aumentano le disuguaglianze da mitigare con risorse prese a prestito, ovvero con maggiore debito. Interrompere questa dinamica, innestando un circolo virtuoso è fondamentale: sottolinearlo è, persino, banale. C’è, allora, da chiedersi quali siano le ragioni dell’inazione da parte di chi ha responsabilità di governo ma anche di chi l’ha avuta in passato. Il motivo è presto detto: le donne senza un impiego servono al funzionamento del nostro sistema di welfare e, quindi, all’economia nel suo insieme, perché agiscono da ammortizzatori sociali.
Nello specifico, esse svolgono compiti spettanti allo Stato che può – a sua volta – risparmiare risorse da destinare a utilizzi più convenienti dal punto di vista elettorale, almeno nel breve termine. E’ evidente che un simile sistema – a lungo andare – non è sostenibile: il meccanismo è destinato a implodere. Ma come è noto, la miopia in politica crea danni enormi le cui conseguenze appaiono evidenti solo negli anni. Purtroppo. Per capire fino a che punto le donne disoccupate agiscano da “ammortizzatori sociali” è sufficiente tornare con la mente ai mesi della pandemia con l’Italia in lockdown. Le scuole, alla stregua degli altri paesi, furono chiuse. La singolarità è che da noi le settimane di Didattica a distanza (Dad) furono ben 38, il numero più elevato dopo quello della Slovenia (47 settimane) e quello della Polonia (43 settimane). Solo per dare un ordine di grandezza, in Spagna le settimane furono solo 15, in Francia 12. Si poteva certamente effettuare una scelta diversa. Una chiusura breve avrebbe mitigato l’inevitabile deterioramento del capitale umano degli studenti, in particolare di quelli appartenenti a famiglie meno abbienti: numerosi studi dimostrano come la Dad abbia allargato il divario in termini di competenze acquisite dai ragazzi provenienti da nuclei familiari con maggiori risorse economiche e miglior accesso alla tecnologia.
L’allora governo Conte 2 decise di imporre un periodo tanto lungo di chiusura delle scuole e, quindi, di Dad perché sapeva di contare su un esercito di mamme non lavoratrici che si sarebbero improvvisate maestre senza molte lamentele. Quelle con un’occupazione, che si sono ritrovate a svolgere il doppio ruolo, erano troppo poche per farsi sentire: i numeri contano. In Francia, per intenderci, il presidente Macron non avrebbe mai potuto seguire la strategia italiana perché le donne occupate sono la larga maggioranza: oltre due francesi su tre avrebbero pesantemente protestato. Questo esempio dimostra fino a che punto le donne senza un impiego siano una risorsa preziosa. In emergenza ma anche nella vita di tutti i giorni. Perché, di fatto, queste donne non sono disoccupate. Al contrario. Sono occupate, non retribuite, dallo Stato nel settore della cura della loro famiglia, che siano bambini o anziani. Come è noto, far affidamento a risorse gratis è una tentazione irresistibile. Per questo, l’incremento della presenza femminile sul mercato del lavoro ha spesso rappresentato per il governo che l’annunciava una priorità solo a parole.
Eppure, mantenere questo esercito di disoccupate è una scelta fallimentare. I motivi sono diversi. A cominciare da quello legato alla demografia. Le esperienze internazionali dimostrano che il tasso di occupazione femminile è correlato positivamente al tasso di natalità: le donne che lavorano tendono, infatti, ad avere più figli perché possono contare su una stabilità finanziaria. Non c’è, quindi, da stupirsi se l’Italia, oltre ad essere il paese europeo con il tasso di occupazione femminile più basso, è anche quello con il tasso di natalità più basso: 1,2 figli per donna contro l’1,6 della media dell’Unione. Il dato, peraltro è in diminuzione. Nello specifico, le nascite nel 2022 sono state pari a 392.598, ovvero circa il 2 per cento in meno del 2021.
Qualcuno sostiene che un simile calo non sia poi un grande problema. Specialmente in una fase di cambiamento tecnologico che potrebbe avere un impatto negativo sull’offerta di lavoro. La tesi “meno siamo meglio è”, però, non convince. La vita si allunga e con meno persone al lavoro il sistema pensionistico non starebbe in piedi. I numeri al riguardo sono eloquenti. La speranza di vita alla nascita nel 2022 è stimata in 80,5 anni per gli uomini e in 84,8 anni per le donne: si tratta di 4 anni in più nell’arco di un ventennio per gli uomini e 2 anni in mezzo per le donne. Che la popolazione invecchi lo dimostra anche il numero degli ultracentenari (100 anni di età e più) che, sempre nel 2022, ha raggiunto il suo alto livello più elevato, sfiorando la soglia delle 22 mila unità, oltre 15 mila in più̀ rispetto al 2002. Se si fanno meno figli e si vive più a lungo, il numero di persone in età lavorativa inesorabilmente scende: i dati Istat rilevano che se nel 2022 il rapporto tra 15-64 anni e la somma dei 0-14 e over 65 anni era di tre a due, nel 2050 sarà di uno a uno. Ma non solo, in un simile quadro si innesca una dinamica perversa. Una popolazione che invecchia ha, infatti, un impatto negativo anche sul tasso di natalità attraverso la riduzione delle donne in età feconda: dal 2008 al 2022 il numero di donne tra15-49 anni è sceso di quasi un milione di unità. Questi dati, peraltro, sono destinati a peggiore. La sostenibilità dei nostri conti è, quindi, a rischio. Il sistema, del resto, è stato creato quando il tasso di sviluppo era più elevato, il mercato del lavoro era dinamico, la demografia positiva e la speranza di vita era inferiore. Quindi per ricapitolare, servono più persone che producono, quindi più nuovi nati: tenere fuori le donne dal mercato del lavoro non ha alcun senso dal punto di vista economico.
Ma, allora, come si passa dal circolo vizioso in atto ad uno virtuoso in cui il numero delle donne occupate è almeno pari a quello della media europea? I piani di intervento sono essenzialmente tre: la crescita, le infrastrutture, il cambio culturale.
Andiamo con ordine, partendo dalla crescita. Il lavoro che sia per gli uomini o le donne aumenta nelle economie che registrano tassi di sviluppo sostenuti. L’economia italiana è stata caratterizzata da due decenni di crescita asfittica. Dopo il tonfo registrato durante la pandemia (- 9 per cento) e il successivo rimbalzo (+ 6 per cento nel biennio 2021-2022), la variazione del pil sta tornando, ahimè, sui livelli precedenti alla crisi sanitaria: il 2023 si è chiuso con un tasso di variazione del pil dello 0,7 per cento. Per l’anno in corso tutti i previsori internazionali, dalla Commissione europea al Fondo monetario internazionale, fino alla Banca d’Italia stimano una crescita lievemente inferiore e pari allo 0,6 per cento che, per inciso, sarebbe la metà delle stime che il governo ha inserito nel quadro macroeconomico che è alla base dell’ultima Legge di bilancio: meno crescita significa maggiore debito, ma qui si entra dentro un altro capitolo.
Tornando al tema del lavoro, gli ultimi dati, rilevano un certo dinamismo: nel mese di dicembre occupati in più rispetto allo stesso mese dell’anno precedente sono stati circa mezzo milione, una cifra davvero significativa. Andando a disaggregare i dati, tuttavia, emerge una situazione non positiva per l’occupazione femminile. Su base mensile, gli uomini occupati in più sono diciannovemila mentre le donne scendono di cinquemila unità. Ma non solo. Gli uomini inattivi, ovvero coloro che non cercano un’occupazione, diminuiscono di tredicimila unità mentre le donne inattive salgono di diciannovemila. In estrema sintesi, a dicembre l’occupazione cresce in Italia ma non per le donne che, al contrario, escono dalla forza lavoro. Si tratta di dati congiunturali, passibili di variazioni, ma certamente da non sottovalutare. Peraltro, tornando ai dati annuali, maggiore occupazione in una fase di crescita modesta non dovrebbe essere letta come una evoluzione da salutare con favore bensì come un campanello d’allarme.
Una simile dinamica è, infatti, legata alla scarsa produttività, un problema che caratterizza la nostra economia oramai da tempo. Basti pensare all’andamento della produttività totale dei fattori, ovvero la parte della ricchezza non ascrivibile al lavoro o al capitale. Questo indicatore è prezioso perché stima la capacità di un sistema economico di produrre e di investire. Ad esempio, misura l’efficienza della burocrazia oppure del sistema giudiziario. Negli ultimi due decenni la produttività totale dei fattori è sempre stata negativa in Italia mentre è stata positiva sia in Germania sia in Francia. La nostra economia andrebbe quindi rafforzata. Come? La soluzione è sempre la stessa: con le riforme, a cominciare da quella della pubblica amministrazione fino a quella della concorrenza: un sistema più concorrenziale renderebbe il nostro paese più attrattivo agli occhi degli investitori esteri. E, invece, siamo ancora qui a dibattere dei balneari e degli ambulanti: temi marginali, indubbiamente, ma che rivelano un’impostazione comune, purtroppo, a molte forze politiche. Del resto, non ci sono tante altre soluzioni per crescere e per creare lavoro, incluso quello per le donne. E, qui veniamo al secondo piano di intervento: le infrastrutture.
Le poche donne che lavorano – lo abbiamo detto, una su due –, devono essere messe nella condizione di poter continuare a farlo anche in presenza di figli. Non è quello che avviene nel nostro paese. I dati al riguardo sono eloquenti. Nel 2022, la quota di donne occupate tra i 25 e 49 anni con almeno un figlio in età prescolare era pari al 53 per cento, ovvero 20 punti in meno rispetto a quella delle donne senza figli. Il divario si colma con diverse azioni. La principale è la creazione di asili nido. Anche in questo ambito siamo in fondo alla classifica. Solo il 28 per cento dei bimbi con età compresa tra 0-3 anni trova un posto (13,6 per cento sono posti pubblici e il 14,3 privati). Come prevedibile al Nord il numero è maggiore e pari al 34,4 per cento, mentre al Sud scende drammaticamente al 16,2. Ciò non deve sorprendere. I dati sull’occupazione mostrano lo stesso divario: al Nord lavorano due donne su tre di età compresa tra 20 e 64 anni, al Sud meno di una su tre. La differenza aumenta tra le giovani: al Nord lavora una donna su due di età compresa tra 15 e 34 anni, al Sud meno di una su quattro. Questo numeri sono molto lontani da quelli europei: il tasso di occupazione medio dei paesi dell’Unione si attesta al 75 per cento.
La carenza dei nidi non è solo è un ostacolo al lavoro femminile ma anche a un lavoro di qualità. Non poter contare su infrastrutture adeguate costringe le donne ad accettare, quando lo trovano, un lavoro part time. I dati parlano chiaro. Le donne con un contratto part-time sono il 30 per cento del totale delle occupate tra (15-64), una percentuale davvero distante da quella degli uomini che si ferma al 7 per cento e da quella media europea che è la metà. Peraltro, l’Italia vanta un record anche per quanto riguarda la percentuale di donne che hanno dovuto accettare un contratto part-time loro malgrado. I dati Ocse per il 2022 mostrano come la quota del part-time involontario sul totale del part time per le donne sia pari al 71 per cento contro il 50 per cento degli uomini. In Germania le percentuali significativamente inferiori: 7,7 contro il 5,2. I numeri italiani dovrebbero far riflettere. Queste occupate avranno pensioni modeste che prenderanno, peraltro, per un periodo verosimilmente lungo visto che la speranza di vita delle donne è in aumento. Insomma, stiamo creando un esercito di anziane povere.
Quindi, per ricapitolare, senza un’offerta adeguata di asili nido, le donne lavorano poco e, nei migliori dei casi, lavorano male. L’offerta attuale va incrementata per raggiungere almeno gli standard europei. A questo scopo, il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), lo strumento messo a diposizione dall’Europa per aiutare il nostro paese a crescere in maniera sostenibile ed inclusiva, quindi anche attraverso il lavoro delle donne, aveva messo a disposizione 4,6 mld di cui 3 per nuovi progetti (in particolare 2,4 per nuovi nidi), 700 milioni per progetti in essere e 900 milioni per la gestione successiva. L’obiettivo erano 264 mila posti in più in modo da ottenere una copertura del 33 per cento, che per inciso era la percentuale che Bruxelles aveva fissato nel 2010. Quindi, per intenderci, un obiettivo ambizioso ai nostri occhi ma non certamente a quelli delle istituzioni europee. Nonostante ciò, il numero dei posti è stato ridotto. A seguito della rimodulazione del Piano attuata dal governo Meloni, il target è sceso da 264 mila a 150 mila posti. Il taglio si sarebbe reso necessario a causa del rincaro di oltre il cinquanta per cento delle materie prime che ha indotto i comuni a non partecipare ai bandi. Inoltre, la Commissione non ha ritenuto ammissibili gli interventi di messa in sicurezza, di demolizione e di ricostruzione di edifici già presenti sul territorio. In altre parole, per i tecnici di Bruxelles i soldi del Pnrr devono essere spesi per costruire nuovi asili, non per migliorare quelli esistenti. Il governo si è impegnato a trovare le risorse per finanziare la creazione dei posti persi. L’impresa non è facile: nei prossimi anni la spesa è prevista scendere, non aumentare. Servirà ricomporla (leggi, togliere risorse da altri comparti) a favore di nuovi asili. Inoltre, è bene non dimenticare che il Pnrr una volta terminato andrà manutenuto. Che cosa significa? Per poter far funzionare le nuove infrastrutture, a cominciare dagli asili, sarà necessario assumere personale. Anche in questo caso le risorse andranno reperiti dal bilancio pubblico: non arriveranno più dall’Europa. C’è da chiedersi se ci sarà la volontà politica per farlo. La facilità con cui sono stati eliminati ben centomila nuovi posti non lascia ben sperare.
Le risorse, si sa, sono scarse e limitate. Il nuovo contesto non è più quello della spesa facile: i tassi non scendono e il debito sale. Gli investimenti andranno selezionati in modo da facilitare l’entrata delle donne nel mondo del lavoro. Anche i sostegni dovrebbero seguire la stessa logica. A questo proposito, il bonus “mamme”, l’ultimo di un lunga serie, lascia perplessi. Il governo ha introdotto un esonero del cento per cento della contribuzione previdenziale a carico delle dipendenti del settore pubblico e privato. La cifra varia in base al reddito delle lavoratrici con un limite massimo di 3 mila euro all’anno, ossia 250 euro lordi al mese. Come si vede, l’assegno è previsto per chi è già nel mondo del lavoro. Tuttavia, è difficile immaginare che possa avere un impatto significativo sui numeri citati. La misura è temporanea – scade nel 2026 – e, soprattutto, è destinata a chi ha tre figli e più e di cui almeno uno minorenne. Non sono molte le italiane in questa situazione.
C’è un altro intervento che non sembra idoneo ad incrementare l’occupazione femminile: il nuovo Reddito di Cittadinanza. Rivedere il sussidio voluto dal Movimento 5 stelle era doveroso: aveva fallito sia in termini di lotta alla povertà sia in termini di lotta alla disoccupazione. Gli occupabili raramente diventavano occupati, i non occupabili, invece, molto spesso restavano poveri. In altre parole, i non occupabili non diventavano occupabili, a cominciare dalle donne. Questo risultato, tuttavia, verrà replicato – con ogni probabilità – anche con il nuovo schema. In base ai criteri adottati dal governo, la categoria dei non occupabili, quella a cui verrà distribuito l’Assegno di Inclusione, comprende le persone con minori, disabili oppure over 60 a carico. In altre parole, restano a casa soprattutto le donne con figli. In questo modo, vengono tagliate fuori dai percorsi di formazione per un lungo periodo con il pericolo concreto di non riuscire successivamente ad accedere al mondo del lavoro. In altre parole, si tiene fuori dai programmi specifici di attivazione lavorativa proprio chi ne avrebbe maggiormente bisogno. ll messaggio che passa è il seguente: chi ha figli non è occupabile, non può lavorare.
E, qui arriviamo al terzo piano di intervento, il più sottovalutato ma forse il più importante: quello culturale. L’occupazione femminile non è al centro dell’agenda politica anche per un problema legato al posto che le donne occupano nella società. L’agenda, infatti, è gestita in prevalenza dagli uomini. Il numero di donne con una posizione di rilievo è certamente cresciuto – per la prima volta una donna è alla guida del paese, Giorgia Meloni, e una donna è a capo del principale partito di opposizione, Elly Schlein – ma resta ancora esiguo. Le donne partecipano in maniera limitata al dibattito pubblico. In particolare, su temi legati alla finanza, all’economia, alla gestione del potere economico. E, così, non si creano modelli di seguire. Le donne, peraltro, hanno una scarsa conoscenza di questi temi. Da un’indagine condotta dalla Banca d’Italia si evince che solo il trenta per cento dei rispondenti ha un livello adeguato di conoscenze di base contro il 62 per cento della media Ocse, l’organizzazione internazionale che raggruppa i Paesi più sviluppati. Nello specifico, le persone meno preparate sono quelle a basso reddito e con poca istruzione, tra cui, purtroppo, spiccano gli anziani e soprattutto le donne. E’ bene ricordare che la formazione, unitamente all’indipendenza economica, costituisce un’arma estremamente efficace per la prevenzione della violenza di genere.
Le donne partecipano poco anche ai dibattiti in cui si parla di temi più strettamente legati al loro mondo. Non è infrequente assistere a convegni in cui a spiegare come fare più figli – per inciso, a una platea spesso composta da una maggioranza di uomini, peraltro, in età avanzata – siano soltanto esponenti del genere maschile. Una tradizione che la pandemia ha persino rafforzato. Il comitato tecnico scientifico che ci informava ogni sera sulla situazione sanitaria del paese era composto da soli uomini. Ma davvero vogliamo credere che non c’erano donne capaci, una ginecologa o una pediatra, da includere nelle dirette giornaliere? La riposta è ovviamente negativa. Il punto, però, un altro. Le donne competenti ci sono ma gli uomini che decidono – a gestire la pandemia a livello governativo c’erano un premier, un ministro della Salute e un commissario per l’emergenza – non le vedono. E, quindi, non le nominano. Per questo servono le quote.
Simili vincoli sono invisi a molti: agli uomini non piace sottostare a un’imposizione, alle donne non piace essere definite “quote”. Punti di vista condivisibili: le quote sono distorsive. Tuttavia, se temporanee possono servire ad aprire le porte alle donne che hanno voglia di mettersi in gioco. E se anche con le quote venisse scelta una incompetente andrà ad aggiungersi alla lunga lista di uomini incompetenti scelti sino ad oggi. Serva fare massa critica. Solo così si velocizza il processo di emancipazione culturale. L’alternativa è non fare nulla e aspettare che il cambiamento avvenga da solo. Così si perde tempo, lavoro e crescita. Con il rischio di tornare indietro nei diritti fondamentali delle donne e dare spazio al riemergere di nuove forme di patriarcato.