Mario Draghi - foto Ansa

Il punto

Come essere ambiziosi sulla competitività? Un paper anti retorico utile per Draghi

​Stefano Cingolani

Il rapporto che l'ex presidente del Consiglio presenterà a giugno, dopo le elezioni europee, farà i conti in tasca all'Ue. Nel frattempo si fa il punto sullo stato dell’arte, come hanno fatto alcuni ricercatori della Facoltà di Ingegneria della Sapienza di Roma

L’Unione europea deve investire circa mezzo miliardo di euro l’anno per la transizione energetica. E quanto per la difesa dal neo-imperialismo russo? Quanto per ridurre il divario con gli Stati Uniti e tener testa alla Cina? Circolano cifre da capogiro. Il rapporto che Mario Draghi presenterà a giugno, dopo le elezioni europee, farà i conti in modo più preciso e indicherà il modo di trovare le risorse non solo con un aumento del bilancio, ma emettendo titoli comuni, eurobond vincolati agli obiettivi strategici della Ue. Nell’attesa si fa il punto sullo stato dell’arte. È il compito che si sono posti alla Facoltà d’ingegneria della Sapienza, nell’ambito dell’Osservatorio delle imprese presieduto da Riccardo Gallo. Il documento è stato redatto da Livio De Santoli, Andrea Locatelli, Pierluigi Montalbano, Giuseppe Pisauro e dallo stesso Gallo. Alcune delle proposte – sul patto di stabilità, sulla strategia green, sul sostegno alle filiere regionali e sulle terre rare – sono in sintonia anche con molte posizioni emerse nell’esecutivo. Troveranno spazio di qui alle elezioni?
 

​La sicurezza oggi più che mai balza al primo posto, ma se l’Europa volesse realizzare un suo sistema autonomo dalla Nato servirebbero decenni e mezzi finanziari non fronteggiabili. Il problema principale è politico-istituzionale. Il limite sta nella frammentazione a tutti i livelli, dal comando all’uso degli eserciti fino all’equipaggiamento e alla produzione. Le imprese europee (incluse quelle britanniche), anche se tra le maggiori a livello mondiale, non possono competere con quelle americane e presto nemmeno con le cinesi. Ci sono alcuni campioni nazionali (Bae e Rolls Royce per la Gran Bretagna; Leonardo e Fincantieri per l’Italia; Thales, Dassault, Naval Group e Safran per la Francia; Rheinmetall per la Germania e Saab per la Svezia ) e solo due transnazionali con i velivoli Airbus e i missili Mbda. In queste condizioni, “le imprese europee sono in grado di specializzarsi in capacità di nicchia e sistemi complessi (soprattutto nel settore dell’avionica e dell’elettronica), ma come integratori di sistemi non possono competere con i colossi americani”.
 

​Il secondo punto riguarda la competitività. È in atto una polarizzazione sul modello di sviluppo centro-periferia: “All’opposto di Germania, Francia e Italia, i paesi nord-europei in testa alla graduatoria della competitività vantano efficienza di governo e di politiche fiscali”. La produttività globale negli ultimi 20 anni è decelerata, specie in Italia. Le catene globali del valore si dimostrano più robuste di quanto si pensasse e l’Europa comunitaria è un unico sistema economico non ancora ben integrato”. Se poi prendiamo gli input produttivi del futuro, balza agli occhi la dipendenza dalla Cina. Gli investimenti finora previsti sono molto inferiori a quelli necessari per la transizione energetica. Il flusso annuo medio di investimenti in energia pulita dal 2017 è stato pari a 1.200 miliardi di dollari, molto meno dei 4 mila miliardi di euro previsti. Quelli in combustibili fossili, invece, sono stati pari a 800 miliardi di dollari, più del massimo tollerabile per raggiungere le emissioni zero entro il 2050. La politica attiva per la decarbonizzazione imporrebbe una progressiva eliminazione dei sussidi ambientalmente dannosi che sfiorano i 7 mila miliardi l’anno, il doppio di quanto ci sarebbe bisogno. Il bilancio federale è esiguo ed è poco credibile che si possa rimpinguarlo in modo significativo. Non sarà di grande aiuto nemmeno la riforma del patto di stabilità. Infatti tutti i paesi dovrebbero tendere con uno sforzo fiscale costante verso il 60% del debito e verso un disavanzo strutturale dell’1,5%. “Tenuto conto che il debito oggi supera il 92% del Pil per l’euro zona nel suo complesso, si avrebbe un’intonazione eccessivamente restrittiva della politica fiscale. Sembra difficile che si possano così soddisfare le esigenze dello sviluppo sostenibile”.
 

​Un indice composto da 335 parametri per 64 paesi nel mondo, mostra che due paesi europei (Danimarca e Irlanda) stanno ai primi due posti della graduatoria, tre (con l’Olanda) nei primi dieci. La posizione media dell’Europa a 27 è rimasta assolutamente invariata, ma al suo interno 13 paesi l’hanno migliorata, due l’hanno mantenuta invariata, 11 l’hanno peggiorata. Tra questi ultimi, Germania e Francia per bassa efficienza del governo, debolezza nella politica fiscale (come anche l’Italia), scarsa resilienza delle imprese, insufficienza delle infrastrutture energetiche. Sono migliorati i paesi nordici e alcuni dell’est. L’Italia dal 2021 al 2023 è stabilmente al posto 41 su 64 paesi, cioè è ferma nella terza e ultima fascia; dagli anni Novanta ha perso capacità di produrre ed esportare valore aggiunto nei settori tradizionali, dove impiega sempre più beni intermedi importati da paesi emergenti. In questi stessi settori è tallonata da altri paesi Ue come Slovenia e Slovacchia. “Pur essendo la seconda più grande economia manifatturiera europea (15,8% del PIL) dopo la Germania (22,5%), l’Italia evidenzia criticità strutturali: le piccole e medie imprese (95% del totale) si collocano su livelli intermedi o finali della catena, assemblano ed esportano prodotti finali, non sono pienamente internazionalizzate. Poche sono le grandi imprese (0,1% del totale)”.
 

​Allora, che fare? Sul militare occorre un disegno strategico coerente con la Nato per il quale la Ue deve promuovere l’approvvigionamento congiunto, aumentando il ruolo dell’Agenzia Europea di Difesa. Vanno promosse produzioni europee a più alto valore aggiunto e politiche commerciali coerenti con la transizione verde, ma che non penalizzino le filiere regionali, elaborando progetti alternativi di produzione di terre rare. Occorre varare, dunque, interventi correttivi al processo di decarbonizzazione finora approvato. Occorre “capovolgere la logica delle regole fiscali ponendo al centro dell’attenzione una copertura equilibrata del fabbisogno finanziario per gli investimenti necessari”. Una grande riforma, insomma, nell’agenda del prossimo parlamento europeo. Che cosa ne pensa il governo? Si capisce che non è materia per Matteo Salvini. E Giorgia Meloni farà una campagna riformatrice o restauratrice? A oggi non si è ancora capito.