tassi giapponesi
In Giappone finisce l'èra dei tassi negativi: Tokyo verso la normalizzazione monetaria
Il governatore della Banca del Giappone Kazuo Ueda si è posto l’obiettivo di un ritorno alla normalità. Finisce l’eccezione giapponese?
Anche la Banca del Giappone ha messo fine ai tassi negativi. Viene subito alla bocca la facile ironia sulla resa dell’ultimo giapponese nella giungla (degli interessi in questo caso). Ma anziché ultima, la banca centrale giapponese è stata la prima a incamminarsi in quella terra incognita che sarebbe stata attraversata anche da Mario Draghi, dai paesi del nord Europa, dalla Svizzera (ma non dalla Federal reserve americana). Pioniere era stato Haruhiko Kuroda, ex ministro delle finanze nominato da Shinzo Abe, per sfidare l’ortodossia e pompare moneta mentre il primo ministro gonfiava il debito pubblico.
Dallo scorso anno c’è al timone Kazuo Ueda, 73 anni, economista plurilaureato professore emerito a Tokyo e presidente dell’Associazione degli economisti, che si è posto l’obiettivo di un ritorno alla normalità, pur senza scosse; indietro piano, con giudizio, i tassi risalgono, ma solo allo 0,1 per cento. Ueda non si è arreso, piuttosto ha messo le vele al vento nuovo.
Finisce, dunque, l’eccezione giapponese? Svaniscono i sogni della “nuova teoria monetaria” apprezzata dai populisti di ogni colore: in Italia dalla coppia leghista Borghi&Bagnai così come dalle fertili menti pentastellate? Una cosa è certa, basta con il denaro che costa meno di niente. E’ vero, il paese è risalito dal tonfo del 2010 (–5,7 per cento) e del 2020 (– 4,1 per cento), ma senza sprint, a differenza dagli Stati Uniti e da molti paesi europei tra i quali in particolare la Spagna e l’Italia. Il prodotto lordo nel 2021 è aumentato solo del 2,1 per cento, mentre il debito pubblico volava al 252 per cento del pil. Un segnale che la semplicistica ricetta “più moneta e più debito” non ha dato i frutti sperati dai suoi sostenitori. Ci sono più cose in cielo e in terra di quanto contenga quella filosofia. Il monito amletico vale anche per il Sol Levante dove bisogna scendere sotto il velo monetario ed entrare nelle dinamiche profonde della società.
Se torniamo indietro al 2000, vediamo che la crescita giapponese è stata asfittica quasi quanto quella italiana, con alti e bassi tra il 2 per cento annuo e lo zero, toccato nel 2002. Al Giappone s’attaglia davvero la “stagnazione secolare” che Larry Summers ha previsto per l’Occidente. L’aumento del debito pubblico, ad esempio, non è avvenuto per spendere e spandere, ma per far fronte al costo della curva demografica, insomma il governo ha impedito che la bomba pensionistica scoppiasse, ma non l’ha disattivata. Stiamo parlando di un paese ricco, con 124 milioni di abitanti, un pil procapite di 54 mila dollari l’anno quasi doppio rispetto a quello italiano, una popolazione ancor più vecchia, un’industria possente radicata nei settori tradizionali (la Toyota è il maggior gruppo automobilistico mondiale), più indietro nell’innovazione digitale, ma in piena e rapida rincorsa, come da tradizione. Un paese a lungo ripiegato su se stesso, fondamentalmente conservatore, senza ambizioni espansionistiche, con il marchio della sconfitta ancora difficile da 2 cancellare.
Abe è stato il primo a reagire con un progetto ambizioso anche se riuscito solo in parte. Il Giappone ormai è diventato parte attiva e importante nella sicurezza anche militare del Pacifico, punta di lancia nel fronteggiare la sfida cinese. E la contro-svolta annunciata oggi non va letta come un ritorno all’antico, ma piuttosto come una passo verso una maggiore integrazione. Vale per la politica estera come per quella economica. Convergenza è la nuova parola magica. Tutte le banche centrali si muovono verso quota 2 per cento con la Bce, la Fed e la Bank of England che cominciano la discesa e la Bank of Japan che risale verso il mitico target dell’inflazione. Intendiamoci, il Giappone continua a tenere le distanze rispetto alla ortodossia monetaria, i tassi sui depositi vengono portati in linea con quelli a breve e brevissimo termine. Tokyo ha controllato l’inflazione usando la politica fiscale e dei redditi (i salari crescono, ma in linea con i prezzi) non la politica monetaria come negli Stato Uniti e nell’Eurolandia. “E’ importante mantenere condizioni finanziarie accomodanti anche mentre portiamo avanti una normalizzazione monetaria”, ha detto Ueda nella conferenza stampa: la deflazione resta il vero spauracchio per i giapponesi, non l’inflazione. Anche il “quantitative easing” ha concluso la sua funzione, ha spiegato il governatore, adesso è arrivato il momento di ridimensionare un portafoglio troppo gonfio.
Sahuro Shirai, ex membro del direttorio che nel 2016 si oppose agli interessi negativi, ha apprezzato “il coraggio e la risolutezza” di Ueda, mostrando l’indipendenza del tecnico meno politicamente targato rispetto al suo predecessore. In Giappone al vertice della banca centrale si sono sempre alternati un ex ministro e un economista, seguendo con pazienza zen lo spirito del tempo.