Antonio Gozzi (Ansa)

senza dibattito

Il no a Gozzi nella corsa di Confindustria non è un tema di carte bollate

Alberto Mingardi

Con il pretesto di incongruità formali, la corsa alla presidenza dell’acciaiere è stata fermata. Se un'associazione come quella degli industriali ha paura dello scontro interno, come può pensare di essere presa sul serio nella dialettica con le altre parti sociali?

La forza di un paese risiede nella capacità della società di organizzarsi per risolvere i propri problemi. Simmetricamente, la sua debolezza è tanto più evidente quanto più allo sbando sembrano i suoi corpi intermedi. Quando l’Italia ha perso i partiti, con l’onda lunga di Tangentopoli, per la prima volta ha guardato fuori dalla politica, cercando riferimenti solidi nel mondo dell’università, del credito, dell’associazionismo, dell’impresa. Abbiamo avuto leader che venivano da quei mondi e che nel bene o nel male hanno influenzato la sfera pubblica. E adesso? Confindustria sta rinnovando la sua presidenza. Nonostante la performance piuttosto appannata dell’associazione negli ultimi anni, ben quattro candidati si sono presentati per prendere il posto di Carlo Bonomi. Un segnale di apparente vitalità. Solo che dei quattro candidati ne sono rimasti in gara solo due (Edoardo Garrone e Emanuele Orsini) e non perché c’è stato un primo e un secondo turno: Alberto Marenghi si è ritirato, mentre Antonio Gozzi è stato escluso dai saggi, sembra per questioni perlopiù formali. 

 

Confindustria è un’associazione privata, ha diritto di disciplinare i suoi processi interni come ritiene opportuno. Tuttavia, che gli industriali parlino con voce autorevole è importante per tutti, perché dalla credibilità di chi li guida dipende in misura non piccola il loro peso nel dibattito. Questione di leadership, appunto. Mentre in passato la scelta del Presidente avveniva sostanzialmente per cooptazione, Confindustria segue ora un meccanismo democratico, in cui sono i soci ad avere l’ultima parola sia pure dopo una serie di verifiche in linea di principio formali. Di qui la generosità con cui i giornali da mesi riempiono le pagine di indiscrezioni e veline a vantaggio dell’uno e dell’altro candidato. Come spesso accade in Italia, se anche la formula è quella dell’una testa un voto, il racconto resta quello della politica di corte. Con il pretesto di incongruità formali, è stata fermata la corsa dell’acciaiere Gozzi. Egli godrebbe del sostegno di una quota di associati compresa tra il 20 e il 25 per cento (per i critici, il 18/19 per cento). E’ stata fatta valere una interpretazione molto rigida del regolamento. Le regole sono le regole, senz’altro. In questo modo però si è accompagnato alla porta un candidato che, oltre a una solida storia imprenditoriale personale, era un riferimento per un quarto dei soci, per giunta il grosso dell’Italia manifatturiera e che ha imparato a competere nella globalizzazione. E’ curioso che la decisione sia stata presa da tre “saggi”, che avrebbero dovuto ricorrere non a un algoritmo ma al proprio discernimento. Quale associazione sopravvivrebbe a un’assemblea in cui a un quarto degli aventi diritto viene detto che non possono provare a esprimerne la guida?

Nemmeno si comprende perché Confindustria abbia rinunciato a qualunque momento di confronto vero tra i candidati, tranne un paio di occasioni in cui essi si sono espressi l’uno dopo l’altro, senza mai dialogare direttamente. I soci di Confindustria non hanno avuto l’opportunità di farsi un’idea verificando le proposte, i programmi e la postura degli aspiranti presidenti, messi gli uni di fronte agli altri. Hanno invece seguito la campagna elettorale dei candidati passo passo leggendola sui giornali. Ha senso mantenere la finzione della riservatezza, quando tutti sanno tutto tranne i criteri di una decisione che sembra presa – in assenza di giustificazioni pubbliche – con l’obiettivo di evitare una discussione magari aspra, ma proprio per questo utile e necessaria?

La principale associazione d’impresa del paese di questo dibattito avrebbe un gran bisogno. Per comprendere cosa vuol fare in futuro. E’ ancora possibile trovare un denominatore comune fra gli interessi, spesso divergenti, che rappresenta? Sa e vuole ancora articolare progetti di riforma di più ampia portata, a cominciare dalle riforme istituzionali, come ha fatto in una fase non piccola della storia del paese? Che desidera e che cosa sa fare di un'università e di un quotidiano, che in passato non poco hanno fatto, l’una e l’altro, per stimolare l’opinione pubblica? Può la linea di Confindustria limitarsi al piccolo cabotaggio, quando lo stato imprenditore pesa sempre di più?

I paesi vivono benissimo senza le Confindustrie, ma, quando ci sono, meglio sarebbe se fossero autorevoli e capaci di farsi sentire. Se un'associazione come quella ha paura dello scontro interno, come può pensare di essere presa sul serio nella dialettica con le altre parti sociali?

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