Domande e prospettive
Che fine ha fatto la voglia di lavorare?
Lo smart working, nato come misura d’emergenza, si è trasformato in benefit quasi irrinunciabile, diventando la condizione prima per accettare un impiego. E se il lavoro, così come lo conosciamo, fosse finito per sempre? Girotondo di opinioni
È tra le prime domande al colloquio di lavoro: prevedete lo smart working? Il candidato alza il sopracciglio, trattiene il respiro e spera. “Ancora prima della retribuzione mi chiedono se offriamo la possibilità di lavorare da casa. Soprattutto i più giovani, ancora prima di capire quale sarà lo stipendio”. Chi lo dice che il benessere deve passare da una busta paga? Marina Crespi, People and culture manager di Openjobmetis, una azienda che conta 800 dipendenti disseminati in tutta Italia, ha il suo personalissimo osservatorio nello studio dove riceve una media di dieci candidati a settimana, rosa varia ed eterogenea per età e provenienza. Qualcosa è cambiato se lo smart working, nato come misura d’emergenza, si è trasformato in benefit quasi irrinunciabile, diventando il quesito, la condizione prima per accettare un impiego. E se il lavoro, così come lo conosciamo, fosse finito per sempre?
Nel 2022 l’Economist aveva frugato tra le abitudini dei lavoratori dipendenti e - dati e statistiche alla mano - aveva consegnato la risposta in prima pagina: il lavoro sarà ibrido. Non più in ufficio ma neppure solo a casa ma un accettabile compromesso tra il vecchio e il nuovo. Perché è chiaro che indietro, prima della pandemia, non è più possibile tornare. Non la macchina o il telefonino o i tanto agognati buoni pasto che comunque ormai valgono meno di un panino: l’Eldorado è il lavoro cosiddetto agile, irrinunciabile luce in fondo al tunnel delle fatiche settimanali del lavoratore-tipo. Intanto la legge disegna un ritorno al prepandemia. Dopo l'ultima proroga scaduta a fine marzo, oltre 400mila lavoratori sono richiamati in ufficio, ma non tutti sono disposti a considerare conclusa l’era smart working, rinunciare a prendere i figli a scuola o a concedersi ore di call dalla casa al mare.Nel 2023 i lavoratori da remoto erano 3,585 milioni, e nel 2024 si stima saranno 3,65 milioni.
“Personalmente non ho mai amato la formula dello smart working e fin dall’inizio abbiamo optato per un giorno alla settimana massimo, certamente però dico no al cento per cento da casa perché si snatura il rapporto, il senso di appartenenza, la voglia di fare squadra, in fin dei conti è alienante” commenta l’amministratore delegato di Openjobmetis, Rosario Rasizza, l’azienda interinale quotata in borsa. La sfida è semmai trovare una giusta formula affinché siano tutti soddisfatti. Immaginare soluzioni e una è ragionare per obiettivi. “All’ufficio buste paghe e fatture ad esempio, prosegue Rasizza, garantiamo cinque giorni di smart consecutivi a fine mese. Anche se la vera rivoluzione la teorizzo da anni: lavorare quattro giorni per essere pagati cinque. Si può fare”.
L’Italia come la Nuova Zelanda, l’Islanda. O come la Svezia che ha scelto sei ore di impiego al giorno. “Dobbiamo assolutamente restare al passo con i tempi", spiega Marco Dubini Daccò, presidente esecutivo di Aon Spa, azienda leader consulente per la gestione dei rischi e dei programmi assicurativi con quasi duemila dipendenti. “I vantaggi del lavoro ibrido sono innegabili, hanno cambiato lo stile di vita delle persone permettendo di conciliare meglio vita privata e vita lavorativa. E comunque ci hanno consentito di raggiungere gli obiettivi anche durante la pandemia, con una crescita continua. Anzi dico di più, in Aon lo smart esisteva già, lo abbiamo iniziato a sperimentare due anni prima della pandemia e con il lockdown eravamo già pronti. Lavorare in smart non vuol dire solo lavorare da casa, è un modello di gestione che prevede di lavorare per obiettivi e progetti e non per presenza in ufficio. È basato sulla fiducia. Se si riesce a importare questo tipo di cultura aziendale vedo grandi vantaggi per tutti”.
L’azienda è tra le più flessibili e dinamiche sul tema e ha esteso la modalità fino a quattro giorni a settimana anche se resta chiaro un punto: “Attenzione al rischio isolamento, frequentare l’ufficio è salutare per costruire le relazioni sociali e professionali, per apprendere e formarsi. Considero l’impresa come una comunità di persone unite da una visione comune ed è dal grado di coesione e condivisione tra le persone che si misura la vera ricchezza di un’organizzazione. Penso ai giovani che stando a contatto con i ruoli più senior possono imparare a vivere al meglio nel contesto lavorativo, confrontarsi, migliorarsi. Non dobbiamo fare l’errore di pensare che tutto si possa affrontare in videocall. In questo senso le estremizzazioni vanno evitate”. Non è facile imparare da remoto, soprattutto se sei al primo impiego e comunicare con WhatsApp non ti sembra irriverente, e dalla cameretta viene facile ignorare le formalità e abbattere la piramide delle gerarchie senza quasi accorgersene.
“Chi cerca occupazione è molto cambiato in questi anni perché sono cambiate le priorità, dice Crespi, come disporre di maggiore tempo libero e vivere più a contatto con la natura. Il mito delle città si sta smorzando, a costo di guadagnare di meno e di fare meno carriera. Ci sono famiglie che hanno chiesto un trasferimento dal nord per scendere al sud in paesi più piccoli, spesso quelli di origine, perché avere i nonni cambia la vita e anche la spesa a fine mese”. Che fine ha fatto dunque la voglia di lavorare? La generazione che ha risollevato l’Italia con fatica e con sudore, orgogliosa di aver patito ogni rinuncia, che ha rimandato la felicità per il dover fare, si ritrova figli edonistici che barattano il sacrificio per il benessere. “L’opportunità di restare a casa oggi fa la differenza, ammette Rasizza. Proprio in questi giorni una dipendente ha lasciato il nostro gruppo perché la concorrenza le garantiva più smart working”.