Le vittorie di Pirro di Urso contro Stellantis

Luciano Capone

Dal cambio nome dell'Alfa Romeo polacca all’arrivo dei produttori cinesi, passando per la trollata a Repubblica. I successi del ministro delle Imprese rischiano solo di spingere ulteriormente il gruppo fuori dall'Italia

In questo scontro tra Stellantis e il governo italiano nessuno ci sta facendo una bella figura. Certamente non il ministro delle Imprese, Adolfo Urso, uscito vittorioso dal braccio di ferro con il gruppo automobilistico: non si chiami Milano un’auto prodotta in Polonia, aveva intimato il ministro citando, peraltro, una legge sbagliata del 2003. “Credo sia una buona notizia, che giunge proprio nella giornata del made in Italy che esalta il lavoro” dice ora, celebrando il fatto che Stellantis abbia cambiato il nome al nuovo modello dell’Alfa Romeo anziché spostato il sito di produzione (cosa che forse avrebbe giustificato l’esultanza). 

 

Ma non è da meno la brutta figura della casa automobilistica, che è stata costretta a sostituire il nome all’auto dopo il lancio perché, evidentemente, qualcosa non andava per il verso giusto: il codice della proprietà industriale (si pensi all’art. 14) avrebbe portato il suo marketing su un terreno scivoloso e ingannevole, qualora avesse calcato la comunicazione sull’indicazione geografica, che doveva peraltro essere uno dei valori aggiunti della “Milano” ora ribattezzata “Junior”.

L’esito è comunque disastroso per il nuovo modello, soffocato nella culla o quasi. La giustificazione dell’ad di Alfa Romeo, Jean-Philippe Imparato, è stata per certi versi più imbarazzante della decisione stessa: “Nessuno ci ha chiesto di cambiare nome” ha detto, aggiungendo che nonostante “il nome Milano rispetti tutte le prescrizioni di legge”, si è deciso di modificarlo “nell’ottica di promuovere un clima di serenità e distensione”. 

Un’argomentazione che riesce a essere al contempo falsa e contraddittoria: il cambio del nome è stato una richiesta perentoria del ministro e, se il nome Milano rispettava la legge, la decisione di cambiarlo è stata a maggior ragione devastante sia sul piano comunicativo sia su quello industriale.

Per fare un confronto, quando la scorsa estate Urso sferrò una campagna comunicativa e poi legislativa sul “caro voli” contro le low cost, accusate di varie nefandezze, il ceo di Ryanair  Michael O’Leary dichiarò che il ministro era un comunista e il suo decreto sovietico sul “caro voi” illegale: sfidò apertamente i metodi di Urso, ricorrendo anche alla Commissione europea, e alla fine fu il governo a dover cambiare il decreto togliendo il “tetto ai prezzi”.

 

La decisione di Stellantis, e soprattutto la spiegazione di Imparato, sono o un errore o l’ammissione di un errore. Un successo del ministro, che però non è chiaro a quale obiettivo strategico porterà. Le vittorie di Urso, al momento, ricordano quelle di Pirro.

Nel rapporto con il gruppo Stellantis in generale, e la sua proprietà italiana in particolare (la famiglia Elkann che controlla anche il gruppo editoriale Gedi), il ministro delle Imprese sembra in perenne modalità troll. Una settimana fa, Urso ha rilasciato una dichiarazione di “solidarietà” ai giornalisti di Repubblica, dopo che il cdr aveva votato la sfiducia al direttore Maurizio Molinari in seguito alla censura nel numero di Affari&Finanza di un articolo che riguardava l’editore, in quanto proprietario di Stellantis: “Bisogna lasciare la libertà al giornalista di poter realizzare il suo prodotto professionale secondo la deontologia professionale – ha detto il ministro –. Mi ha colpito che sia stato sostituito l’articolo, tanto più perché riguardava la logica degli investimenti stranieri nel nostro paese, gli affari tra Francia e Italia, ed ero citato anch’io”. 

Dopo le polemiche tra Giorgia Meloni e Repubblica su “svendite” delocalizzazioni e  conflitto d’interessi, e dopo la campagna di Repubblica contro il governo “autoritario” che usa il “manganello sovranista” perché non sa distinguere l’indipendenza di un giornale dagli interessi del suo editore, Urso è andato a prendersi la vittoria con il comunicato di solidarietà nei confronti dei “colleghi” di Repubblica: sfiduciando il direttore Molinari, il cdr di Repubblica ha certificato che sul conflitto d’interessi aveva ragione il governo. Esattamente come l’Alfa Romeo, cambiando nome alla Milano, ha ammesso che aveva ragione Urso. E il ministro, in entrambi i casi, con un comunicato ha celebrato il proprio trionfo.

 

Non è l’unica volta in cui il ministro delle Imprese si pone in modalità provocatoria nei confronti dell’unico produttore automobilistico del paese. Quando un paio di mesi fa l’ad di Stellantis, Carlos Tavares, ha posto il problema degli incentivi all’elettrico per sostenerne la produzione, Urso ha risposto proponendo la nazionalizzazione: “Se Tavares o altri ritengono che l’Italia debba fare come la Francia, che recentemente ha aumentato il proprio capitale sociale all’interno dell’azionariato di Stellantis, ce lo chiedano. Se vogliono una partecipazione attiva possiamo sempre discuterne”. Era, ovviamente, una semplice boutade. Poco dopo lo stesso Urso ha dovuto ammettere che l’ingresso dello stato in Stellantis era solo una fantasia: “Si poteva fare quattro anni fa, oggi è fuori dall’agenda”.

 

Analogamente, per stimolare Stellantis a produrre un milione di vetture, Urso ha agitato lo spauracchio dell’ingresso di un secondo produttore. In particolare cinese. L’annuncio è stato accolto da Stellantis come una dichiarazione di guerra, a cui Tavares ha risposto con una minaccia: “Se qualcuno vuole introdurre competitor cinesi sarà responsabile delle decisioni impopolari che dovranno essere prese”. Tradotto: taglieremo posti di lavoro e chiuderemo fabbriche. 

È di ieri la notizia di un dialogo tra l’Italia e il colosso cinese Dongfeng per la produzione di 100 mila veicoli: “Siamo interessati a produrre in Italia e siamo pronti a incontrare il governo”, dice l’azienda cinese. Un paio di settimane fa Urso ha dichiarato che il numero di case automobilistiche che vogliono produrre in Italia “è arrivato a 6-7-8”.

La concorrenza fa sicuramente bene, soprattutto a un paese abituato a un monopolista, anche se l’apertura ai cinesi contrasta un po’ con l’uscita dalla Via della seta, voluta dalla premier  Meloni, e con la predilezione del ministro Urso per il golden power, sempre invocato e spesso usato proprio contro i cinesi.

 

Certamente non c’è chiarezza sul piano industriale di Tavares per l’Italia, ma la sensazione è che le azioni e le provocazioni di Urso, anziché stimolare Stellantis a impegnarsi in Italia, la spingano ulteriormente verso il disimpegno e la fuga dal paese. Il rischio è  di avere auto cinesi made in Italy e marchi italiani fatti all’estero o da nessuna parte, e con una produzione in calo e ben lontana dal milione di auto. Allora sì che Urso potrebbe rivendicare il titolo di re dell’Epiro.

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  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali