Joe Biden - foto via getty Images

L'analisi

I nuovi dazi di Biden sull'acciaio sono una sciocchezza per tre motivi

Alberto Saravalle e Carlo Stagnaro

L’obiettivo della manovra è palese: la Casa Bianca vuole assicurarsi i voti del sindacato del settore siderurgico che possono rivelarsi decisivi, nelle prossime elezioni presidenziali, per conquistare la Pennsylvania, uno stato in bilico

Il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, ha chiesto di triplicare i dazi sull’importazione di acciaio e alluminio dalla Cina (attualmente fissati attorno a un valore medio del 7,5%). L’obiettivo della manovra è palese: la Casa Bianca vuole assicurarsi i voti del sindacato del settore siderurgico che possono rivelarsi decisivi, nelle prossime elezioni presidenziali, per conquistare la Pennsylvania, uno stato in bilico. Nonostante l’impatto sui prezzi, i dazi non dovrebbero avere effetti significativi sull’inflazione in quanto Pechino soddisfa appena lo 0,6% del fabbisogno americano di questi prodotti. Le rassicurazioni al riguardo sono importanti perché c’è un consenso diffuso che la revanche protezionistica (iniziata con la presidenza Trump) nel complesso abbia nociuto all’economia e all’occupazione americane: sebbene queste misure abbiano salvaguardato alcuni settori industriali, ne hanno infatti penalizzato altri, quale l’automotive, che hanno dovuto fare i conti con un rincaro delle materie prime.
 

Si sarebbe dunque tentati di liquidare la proposta solo come un escamotage elettorale o l’ennesima mossa nella guerra in atto tra Washington e Pechino (si pensi all’indagine sulle pratiche in uso nella cantieristica cinese, oltre alle svariate misure per limitare l’accesso alle tecnologie avanzate e ai semiconduttori). In realtà, queste misure sono un ulteriore tassello di una politica commerciale conflittuale  che sta portando a maggiore segmentazione dei mercati. Non c’è solo un fronte aperto con la Cina, ma anche con l’Europa: ai dazi di Trump per acciaio e alluminio, Biden ha sostituito un sistema di quote che ha lasciato irrisolta la questione. Il tentativo di trovare un forum nel quale affrontare le varie questioni commerciali aperte (il Trade and Technology Council) non ha portato risultati. L’Inflation Reduction Act è continua fonte di preoccupazioni in Europa. L’Organizzazione mondiale del commercio non funziona perché da anni gli Usa non nominano i giudici dell’organo d’appello. E, per di più,  Biden ha contestato alla radice la possibilità che essa valuti se sono fondate le argomentazioni basate sulla sicurezza nazionale per mantenere in essere taluni dazi. Insomma, il messaggio che arriva da Washington non è solo che il presidente è disposto a inseguire Trump sul suo terreno. È, soprattutto, che il protezionismo è ormai entrato  nel lessico politico americano, al punto che entrambi i partiti si dimostrano esplicitamente favorevoli alle nuove restrizioni. Non si intravede un ragionamento strategico sottostante. Se il protezionismo fosse limitato a contrastare l’espansionismo cinese, potrebbe essere comprensibile.

Ma allora occorrerebbe costruire in parallelo una vasta area di scambio euroatlantica. Adottare misure unilaterali a destra e a manca è dannoso. Sul piano economico i costi rischiano di essere superiori ai benefici, sul piano politico si appiattiscono i contendenti su una medesima posizione, sul piano geostrategico si produce una pericolosa conflittualità.  Anziché dotare il mondo di regole solide e condivise, anche per affrontare le grandi sfide comuni che vanno dal clima ai feroci conflitti in atto, stiamo tornando all’“ognuno per sé”. E così ci perdiamo tutti.

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