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Il post-Superbonus secondo Bankitalia: l'opposto del Superbonus

Luciano Capone

La Banca d’Italia indica come devono essere gli incentivi in vista della direttiva "Case green": l'opposto del 110%. Aiuti solo ai più poveri, ruolo del privato, sostenibilità finanziaria, costi certi. Insomma, rifare le case senza sfasciare il bilancio

La Banca d’Italia cerca sempre di tenersi lontana dalle polemiche politiche, e così è pure nel caso dei bonus edilizi. Anche perché, non avendo sollevato particolari obiezioni e critiche all’inizio, sarebbe poco elegante farlo ora. La scorsa settimana, ad esempio, in un intervento sulla riqualificazione energetica degli immobili, il vicedirettore generale Paolo Angelini non ha mai citato il Superbonus.

La Banca, però, ha appena pubblicato un interessante paper, in cui sono approfondite alcune osservazioni e conclusioni anticipate da Angelini, che in sostanza spiega come dovrebbe essere l’intervento pubblico sull’efficienza energetica delle abitazioni dopo il Superbonus: l’opposto del Superbonus.

Lo studio, dal titolo “Il miglioramento dell’efficienza energetica delle abitazioni in Italia”, realizzato da diversi autori dei vari Servizi di Via Nazionale, è improntato dal motto einaudiano Conoscere per deliberare. È chiaro che con la direttiva europea Energy performance of buildings directive (Epbd, cosiddetta Case green) bisognerà raggiungere degli obiettivi importanti di riduzione dei consumi medi energetici delle case: -16% entro il 2030 e -20% entro il 2035, a patto che almeno il 55% del risparmio derivi dagli edifici con le peggiori performance.

Ma per decidere cosa fare per raggiungere questi target, bisogna avere una conoscenza dello stato del patrimonio immobiliare. E, purtroppo, l’assenza di dati è uno dei problemi principali. L’Italia ha circa 36 milioni di abitazioni (su un totale di 77 milioni di unità immobiliari) e le famiglie italiane, secondo le rilevazioni Istat, vivono per il 73% in case di proprietà, per il 17% in affitto (dato che sale al 40% per le famiglie più povere) e il restante 10% in usufrutto o in case occupate a titolo gratuito.

Il problema è che non conosciamo bene le caratteristiche di efficienza energetica di questi immobili. Il Siape, che è il principale archivio sul tema, contiene solo 5,3 milioni di attestazioni di prestazione energetica (Ape) e, di queste, circa il 54% delle abitazioni ha un’efficienza energetica molto bassa (classi G e F), mentre solo l’11% ha prestazioni elevate (da A1 in su). Il problema, però, è che non si tratta di un campione rappresentativo dell’intero patrimonio residenziale nazionale, dato che deriva da immobili che hanno maggiore mercato (e che pertanto sono obbligati al rilascio della certificazione).

Facendo una simulazione su tutte le abitazioni, si ricava che ci sarebbero “circa 9 milioni di case inefficienti in più, rispetto a quanto desumibile dal Siape”. Pertanto 28,5 milioni di abitazioni anziché 19,5 milioni (che è la proiezione del 54% di classe G e F del Siape). Intervenire su tutti questi immobili sarebbe, ovviamente, insostenibile per il bilancio pubblico. Ma, soprattutto, sarebbe necessario?

La risposta non è così scontata. Perché secondo la letteratura analizzata dagli studiosi della Banca d’Italia, i rendimenti dell’efficientamento energetico sono abbastanza elevati – vengono cioè incorporati nel valore di mercato dell’immobile – e pertanto non sarebbe giustificato un incentivo pubblico. Naturalmente, non in tutti i casi i benefici dell’investimento in riqualificazione energetica superano i costi – e in questi casi si può prevedere un intervento dello stato, ma non ampio come si potrebbe immaginare. E, soprattutto, ci possono anche essere delle soluzioni alternative o coadiuvanti di mercato.

Lo stato dovrebbe intervenire in presenza di due cosiddetti “fallimenti di mercato”: quando i prezzi dell’energia non internalizzano i costi ambientali delle emissioni; e quando ci sono “frizioni che distorcono le scelte di famiglie e imprese”. Ovvero scarsa informazione (e si torna al punto iniziale) o vincoli di liquidità, che impediscono di indebitarsi per fare gli investimenti.

Anche in questo caso ci sono soluzioni di mercato che possono essere potenziate, come ad esempio i “mutui verdi” da parte delle banche oppure strumenti finanziari innovativi che, coinvolgendo le società fornitrici di energia, consentono di pagare i lavori di riqualificazione attraverso i risparmi ottenuti sulla fornitura energetica.

L’intervento pubblico dovrebbe essere limitato alle aree residuali, ma gli incentivi devono avere alcune caratteristiche. Bisogna selezionare attentamente i beneficiari e gli immobili da agevolare, indirizzando le risorse prevalentemente alle famiglie più povere (mentre finora i dati mostrano che la maggior parte dei bonus edilizi è intercettata dai più benestanti) e alle abitazioni meno efficienti.

Bisogna fare attenzione allo strumento: ad esempio Banca d’Italia sconsiglia sulla base dell’esperienza recente il credito d’imposta con cessione illimitata (meglio sussidi mirati e mutui agevolati). L’incentivo deve “sempre prevedere una compartecipazione al costo da parte del beneficiario”, quindi niente 110%.

Inoltre, l’incentivo deve tenere conto dell’impatto sul bilancio pubblico, e quindi della sostenibilità finanziaria. Infine, deve avere “certezza e stabilità” nel tempo, cosa che a sua volta implica che il costo sia noto o ben stimato prima.

In sostanza, disegnare un buon incentivo per il post Superbonus non è difficile: basta fare l’esatto contrario del Superbonus.

 

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  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali