Tim - foto Ansa

La svolta

Vivendì si asterrà sulla vendita della rete Tim a Kkr. Rumors su Mediaset

Stefano Cingolani

Martedì prossimo è prevista l'assemblea dell'azienda: in cambio di una buona uscita della vendita della rete Tim, i francesi cercano un accordo con Mediaset per nuove opportunità nel mercato televisivo italiano ed europeo

Il principe di Condé dormì profondamente prima della battaglia di Rocroi. Nessuno sa che cosa stia facendo Arnaud de Puyfontaine prima della battaglia decisiva (forse) per la sorte della Tim. Non risulta che il presidente della Vivendi stia sfrecciando con una delle sue auto veloci lungo l’amata costiera amalfitana. Forse è nelle terre avite di Borgogna a sfogliare le prime margherite: lascio, aspetto o raddoppio all’assemblea che si terrà martedì prossimo? Che cosa gli avrà detto il patron Vincent Bolloré al quale non va giù che in Italia dove aveva avuto ampio spazio grazie al parrain Bernheim e al son copain Berlusconi, debba incassare due sonore sconfitte: la prima proprio in Mediaset, la seconda in Telecom Italia. Nell’un caso e nell’altro l’intero establishment politico, finanziario, istituzionale italiano gli ha sbarrato le porte congelando per ben otto anni le quote del gruppo francese.
 

Secondo una scuola di pensiero, Vivendi sta trattando proprio con quel coté politico che gli ha giocato contro. Ciò vuol dire che all’assemblea di martedì prossimo non si schiererà contro il piano dell’amministratore delegato Pietro Labriola, sostenuto dalla Cassa depositi e prestiti, che ruota attorno alla vendita della rete al fondo Kkr. Non voterà a favore, ma sceglierà l’astensione. Far saltare il banco gioverebbe solo agli short seller, gli speculatori, come si è visto il 7 marzo quando il titolo ha perso il 24 per cento in una sola giornata. Dunque via libera all’accordo stipulato con il governo, la rete fissa sarà ceduta per un prezzo di circa 20 miliardi di euro, anche se inferiore a quello stimato da Vivendi che vorrebbe rifarsi delle perdite: nel 2016 ha pagato 4 miliardi di euro per il suo 24 per cento in Tim e ne ha bruciati circa tre secondo le stime del Sole 24 Ore. È andata male anche in Mediaset: ha speso 1,2 miliardi per il 28,8 per cento e il titolo tra alti e bassi ora vale meno. Il gruppo francese ha fatto ricorso contro la vendita della rete Telecom e la prima udienza si terrà il 21 maggio. Un infinito contenzioso giudiziario non conviene, ma Vivendi che cosa potrebbe ottenere in cambio?
 

Gli occhi si rivolgono a questo punto verso Mediaset, che s’avvia a diventare il primo gruppo televisivo italiano scavalcando una Rai in piena discesa libera. La Mediaset dei Berlusconi, ma senza più Silvio. Anche qui dobbiamo fare i conti con tante voci fuori scena. Ufficialmente Pier Silvio ha intenzione di rilanciare il suo progetto di TV europea, finora bloccato per la fiera resistenza sul fronte tedesco. In ProsiebenSat non ha toccato palla, può salire fino al 30 per cento, ma non conta nulla. A Cologno Monzese hanno smentito le voci di un’opa sulla società bavarese, tuttavia restare a bagnomaria non ha senso. Un accordo con Vivendi potrebbe aprire nuovi scenari. In fondo era stato proprio Bolloré a lanciare l’ambizioso piano di una Netflix europea.
 

Vasto programma, troppo vasto dicono i realisti, secondo i quali Bolloré ne ha piene le scatole dell’Italia, ancor più i suoi figli, soprattutto Yannick e Cyrille ai quali ha lasciato gli affari correnti. Dunque, in cambio della sua astensione Vivendi vuole solo una buona uscita. L’idea che i figli possano sanare le ferite dei padri è una bella favola dicono le stesse fonti, ricordando quando fu Marina Berlusconi a dare del “cannibale” allo scalatore bretone il quale nella sua campagna d’Italia ha commesso una catena di errori. Aveva cominciato in Mediobanca alla svolta del nuovo secolo con un blitzkrieg sotto lo sguardo comprensivo di Berlusconi. Ben presto anche la vita in Piazza degli Affari era diventata difficile, l’amministratore delegato Alberto Nagel aveva eretto un muro, sia pur di gomma. Nel 2016 Bolloré si trovò quasi per caso a rilevare la quota che la spagnola Telefonica aveva in Tim. Con la classica mossa del cavallo cominciò a puntare su Mediaset per creare un gruppo integrato di media e telecomunicazioni. Prima venne Premium la sfortunata pay tv, poi, visti i pessimi conti, tirò al bersaglio grosso. Berlusconi diede battaglia trovando l’appoggio di tutti i governi successivi. L’Italia una volta tanto fece sistema, ma con il senno di poi perse un’occasione, visto che oggi né Tim né Mediaset sono abbastanza forti per competere in un mercato di giganti.
 

L’accordo con Kkr consente un doppio salvataggio: la Tim può ridurre il debito che l’ha impiombata (32 miliardi lordi), senza ricorrere al denaro dei contribuenti; e il governo potrebbe poi cedere alla nuova società Open Fiber finita nelle sabbie mobili. La soap opera telefonica s’arricchisce di una nuova puntata e non sarà l’ultima. Quanto a lungo Kkr terrà la rete nelle sue mani? Quando potrà ottenere l’utile stimato di 2,7 miliardi di euro e remunerare i risparmiatori americani? L’obiettivo è il 2030, poi si vedrà.

Di più su questi argomenti: