Il discorso a Rome tre
Più mercato uguale più pace. Il manifesto di Fabio Panetta
I nuovi confini della globalizzazione da tutelare, gli allarmi sulla demografia da capire, i tabù sui migranti da sfatare e la cessione di sovranità da non snobbare. La grande lezione del governatore di Bankitalia, che ha ricevuto la laurea honoris causa in Scienze giuridiche banca e finanza
Pubblichiamo il discorso tenuto a Roma Tre dal governatore di Bankitalia Fabio Panetta, in occasione della consegna della laurea honoris causa in Scienze giuridiche banca e finanza.
"La mia lezione odierna riguarderà vicende che l’attualità pone ogni giorno sotto i nostri occhi. Le relazioni internazionali sono oggi messe a dura prova da tensioni e conflitti insorti in molte aree del mondo: dall’Europa orientale al Medio Oriente, dall’Asia all’Africa. Il 2023 è stato l’anno con il maggior numero di conflitti dalla Seconda guerra mondiale. Le dispute geopolitiche, e ancor di più il dramma della guerra, hanno implicazioni che oltrepassano i confini dei paesi coinvolti. Esse generano rischi economici e ostacolano gli scambi internazionali di beni e servizi e i movimenti dei capitali, fino a provocare una frammentazione dell’economia mondiale tra blocchi contrapposti di paesi. L’uso delle politiche commerciali e finanziarie a fini strategici – la cosiddetta weaponization – accentua questi rischi. L’economia europea è particolarmente esposta alle conseguenze di una frammentazione del commercio mondiale per effetto sia della sua stretta integrazione produttiva e finanziaria con il resto del mondo, sia del suo modello di sviluppo, dipendente dall’importazione di risorse naturali e fondato sulla domanda estera. Come possiamo reagire a un’incertezza che sembra destinata a rimanere a lungo elevata? Quali misure sono necessarie per rafforzare la competitività, l’autonomia strategica e la rilevanza internazionale dell’economia europea? Per rispondere a queste domande, oggi analizzerò il recente inasprimento delle dispute geopolitiche, i suoi effetti sull’economia mondiale, sulle politiche e sull’assetto istituzionale dell’Europa.
Gli shock economici possono sfociare in contrasti o conflitti geopolitici. Ad esempio, la Grande Depressione contribuì a determinare le contrapposizioni politiche, economiche e sociali che condussero allo scoppio della Seconda guerra mondiale. Più in generale, analisi empiriche mostrano che variazioni pronunciate delle ragioni di scambio dovute a rincari delle materie prime aumentano la probabilità che insorgano dispute. Il nesso causale opera anche in senso opposto: le contese geopolitiche, a loro volta, provocano di frequente sconvolgimenti economici. Le due guerre mondiali, ad esempio, hanno causato il maggior calo del PIL pro capite e la più estesa distruzione di capitale fisico dell’era moderna. La guerra arabo‐israeliana del 1973 ha innescato un rincaro del petrolio che ha finito per destabilizzare l’economia mondiale. Di recente abbiamo constatato gli effetti inflazionistici e recessivi determinati dall’aggressione all’Ucraina. Una stretta relazione lega inoltre gli equilibri geopolitici al commercio. Nella storia, all’espansione territoriale delle grandi potenze – dall’antica Roma fino all’epoca coloniale – faceva seguito l’integrazione economica. In ragione di questi legami tra attività economica e commercio da un lato e ostilità geopolitiche dall’altro, nelle democrazie occidentali dopo la devastazione della Seconda guerra mondiale si è affermato il paradigma secondo cui solo una stretta integrazione economica internazionale avrebbe potuto garantire una pace duratura. Il rapporto tra apertura economica e pace è citato esplicitamente nella Carta dell’Avana, che nel 1948 prefigurava la creazione di un organismo per il commercio internazionale al fine di realizzare il disegno delle Nazioni Unite di creare condizioni di stabilità e benessere per garantire la pace tra le nazioni.
La Carta non entrò mai in vigore, ma i negoziati diedero vita all’Accordo generale sulle tariffe doganali e sul commercio (GATT), che nel 1995 lasciò il posto all’Organizzazione mondiale del commercio (WTO). (…) In Europa la creazione della Comunità europea del carbone e dell’acciaio nel 1951 e della Comunità economica europea nel 1957 furono ispirate dalla dichiarazione di Robert Schuman secondo cui l’integrazione economica avrebbe reso la guerra in Europa “non solo impensabile, ma materialmente impossibile”. Anche grazie a questo assetto, dal dopoguerra l’economia mondiale ha registrato una progressiva integrazione. Il commercio in rapporto al PIL è salito dal 20 per cento nel 1950 al 34 nel 1975. La globalizzazione è proseguita con la fine della Guerra fredda e la partecipazione di nuovi paesi al commercio mondiale − in primis la Cina, che nel 2001 ha aderito alla WTO. Nel 2021 il commercio era salito al 57 per cento del PIL mondiale. La caduta delle barriere commerciali e i progressi nei trasporti hanno stimolato la creazione di catene globali del valore volte a trarre vantaggio dalle differenze tra paesi in termini sia di specializzazione sia di disponibilità e costo dei fattori produttivi. L’espansione del commercio ha riguardato principalmente i beni, ma è stata significativa anche per i servizi. Lo sviluppo più sorprendente è avvenuto nella finanza: dagli anni novanta alla crisi del 2007‐08 le attività finanziarie sull’estero dei paesi del G20 sono raddoppiate. Un tale sistema di commerci, aperto e multilaterale, è stato un motore di prosperità. La libertà di scambiare beni e servizi, di investire su base transfrontaliera, di confrontare idee e conoscenze ha alimentato la crescita per larga parte dei paesi e della popolazione mondiale. I lavoratori, soprattutto le donne, hanno trovato occupazioni più produttive. Centinaia di milioni di persone in nazioni in via di sviluppo sono state sottratte alla povertà. A livello mondiale, dagli anni ottanta le disuguaglianze sono diminuite grazie a un’attenuazione dei divari tra paesi. La globalizzazione, pur generando talvolta tensioni sociali per le forti spinte concorrenziali, è stata nel complesso vantaggiosa laddove si è accompagnata a investimenti in istruzione, sanità e sistemi di protezione sociale1 L’eliminazione dei dazi e la concorrenza internazionale hanno compresso i prezzi dei beni importati, a beneficio soprattutto dei consumatori a basso reddito delle economie avanzate.
Ciascuno dei tre pilastri dell’ordine multilaterale del dopoguerra – apertura commerciale, crescita economica e stabilità geopolitica – è oggi messo alla prova. In primo luogo, la globalizzazione incontra resistenze in più paesi avanzati. Il malcontento riflette la percezione che essa provochi forti disuguaglianze; l’aumento delle importazioni provenienti da paesi a basso reddito e la delocalizzazione produttiva sono spesso considerati cause di impoverimento dei salari reali e del peggioramento delle opportunità di impiego per i lavoratori meno qualificati. Queste percezioni rispecchiano in qualche misura la coincidenza temporale tra la crescita del commercio internazionale e l’aumento delle disuguaglianze e sono in parte infondate. Dall’inizio degli anni novanta le disuguaglianze tra paesi si sono costantemente ridotte, mentre i divari di reddito all’interno dei paesi sono cresciuti. Tali divari riflettono tuttavia numerosi fattori, molti dei quali hanno poco a che fare con la globalizzazione. Ad esempio, il progresso tecnologico influenza le disparità retributive assai più della delocalizzazione produttiva o della partecipazione a catene globali del valore. Inoltre, la tendenza a trasferire all’estero fasi della produzione è dovuta principalmente ai miglioramenti nei trasporti e nelle telecomunicazioni piuttosto che alla liberalizzazione del commercio. Gli strumenti per contrastare le disuguaglianze a livello domestico sono le politiche nazionali, soprattutto quelle in materia di istruzione, sanità, tutela dei diritti dei lavoratori e sicurezza sociale. In secondo luogo, l’indebolimento della crescita nelle economie avanzate rispetto alla fase di espansione del dopoguerra, accentuatosi a seguito della crisi finanziaria globale, genera talora l’erronea percezione che lo sviluppo sia un fenomeno “a somma zero”, ossia che vantaggi per uno o più lavoratori possano essere ottenuti soltanto a danno di altri. Ciò alimenta divisioni sociali e ispira misure contrarie alla globalizzazione e all’immigrazione, contribuendo alla polarizzazione politica che oggi osserviamo in più paesi. (…).
Negli anni recenti l’instabilità geopolitica si è associata a una frammentazione del commercio mondiale. Gli esempi di questa tendenza includono l’affievolirsi del sostegno degli Stati Uniti alla WTO, le dispute protezionistiche tra Stati Uniti e Cina, la Brexit, l’opposizione di molti paesi occidentali – inclusi quelli della UE – all’acquisizione di imprese e infrastrutture strategiche da parte di investitori cinesi. Di recente, la comunità internazionale ha risposto all’invasione dell’Ucraina con sanzioni commerciali e finanziarie nei confronti della Russia. Il tragico conflitto in atto in Medio Oriente potrebbe estendersi e destabilizzare i mercati dei prodotti energetici. Le restrizioni al commercio – dazi, sovvenzioni, vincoli alle esportazioni e agli investimenti esteri – hanno aggravato gli effetti delle strozzature all’approvvigionamento di beni emerse dopo la pandemia. Gli eventi che ho appena descritto hanno stimolato una riflessione su costi e benefici dell’eccessiva dipendenza da paesi terzi per la fornitura di materie prime e prodotti essenziali. In un mondo ideale, l’integrazione commerciale comporta indubbi vantaggi, consentendo ai produttori di ricorrere ai fornitori più efficienti e agli intermediari di diversificare l‘attività a livello internazionale. Nel mondo reale, politicamente instabile, l’interconnessione può però trasformarsi in vulnerabilità. I governi dei maggiori paesi stanno reagendo a queste vulnerabilità. Con riferimento alle risorse strategiche – quali i prodotti agricoli, energetici o tecnologici – le principali economie sono oggi meno disponibili a dipendere da partner commerciali con cui non hanno relazioni consolidate e affinità politiche, economiche e culturali. Alcune nazioni stanno incentivando il trasferimento all’interno dei propri confini (reshoring) o in paesi “amici” (friend-shoring) di produzioni in passato delocalizzate. Questa scelta avviene talora a danno di alleati dal punto di vista geopolitico. Le imprese stanno anch’esse ripensando le proprie strategie, rivedendo le scelte di localizzazione al fine di riportare l’attività entro i confini nazionali o diversificando i mercati di sbocco e le fonti di approvvigionamento per creare reti di produzione regionali (regional reshoring). Anche per effetto di tali andamenti, dopo decenni di forte espansione, gli scambi di beni e servizi in rapporto al PIL mondiale stanno ristagnando e la distribuzione geografica del commercio sta mutando, con l’emersione di nuovi centri di gravità. Queste tendenze non si sono tuttavia finora tradotte in una vera e propria deglobalizzazione. (…) Nel complesso, è evidente la convenienza a preservare un’economia mondiale aperta agli scambi internazionali. Recidere i legami commerciali sarebbe costoso39 e provocherebbe una forte perdita di benessere per la popolazione mondiale.
Al tempo stesso non possiamo ignorare i rischi geopolitici e i loro effetti. Dobbiamo considerare la possibilità di trovarci di fronte a ulteriori spinte protezionistiche e a una deglobalizzazione dell’economia mondiale, e valutare come rispondere in una tale evenienza. La soluzione è rafforzare l’economia europea lungo tre direzioni principali: riequilibrando il suo modello di sviluppo; garantendo la sua autonomia strategica; adeguando la sua capacità di provvedere alla propria sicurezza esterna e potenziando il suo ruolo nel dibattito internazionale. L’obiettivo non è contrapporsi ad altri o chiudersi all’interno dei confini domestici, ma acquisire forza per contribuire alla concorrenza, all’integrazione e al dialogo tra paesi. Per conseguire questi obiettivi sono necessari interventi strutturali.
Occorre innanzi tutto riconsiderare il modello di crescita europeo. Negli ultimi due decenni l’economia della UE ha fatto eccessivo affidamento sulla domanda estera e ha penalizzato la domanda interna, al contrario degli Stati Uniti. Le controversie commerciali e gli shock globali rendono però questa strategia di crescita meno sostenibile e più rischiosa. In prospettiva, la UE dovrà rafforzare la domanda interna e valorizzare il mercato unico. (...).
L’Europa ha una scarsa specializzazione nelle produzioni alla frontiera tecnologica. In una fase in cui la tecnologia è soggetta a misure protezionistiche e a fenomeni di reshoring, occorre rafforzare la competitività in questo comparto e ridurre la dipendenza dall’estero. Ciò stimolerebbe la concorrenza in settori in cui si vanno affermando monopoli di pochi giganti tecnologici globali; determinerebbe vantaggi che oltrepassano la dimensione economica e riguardano i diritti fondamentali dei cittadini – si pensi alla privacy e al pluralismo nel settore dell’informazione.
Progressi sono necessari nelle tecnologie per la produzione e l’utilizzo di fonti di energia a emissione di anidride carbonica nulla. In prospettiva queste tecnologie – oltre ai vantaggi che ho menzionato in termini di sicurezza energetica – attireranno ingenti investimenti e genereranno guadagni di produttività e posti di lavoro. Altri paesi hanno varato iniziative nella medesima direzione56. La risposta a queste iniziative va data con misure europee, che non indeboliscano il mercato unico. Il piano industriale del Green Deal varato dalla Commissione prevede invece interventi che non sono finanziati con nuove risorse europee, ma che allentano le norme sugli aiuti di Stato. Questo meccanismo avvantaggia i paesi più forti dal punto di vista fiscale e rischia di segmentare il mercato unico, avviando una competizione deteriore al ribasso in cui ciascuno Stato membro mira a offrire incentivi superiori a quelli degli altri. Il risultato sarebbe una scarsa efficacia degli interventi e un minore guadagno di competitività per il sistema produttivo europeo nel suo complesso. È inoltre necessario espandere gli investimenti pubblici e privati nelle tecnologie avanzate, portandoli ai livelli dei paesi più attivi e valorizzando i centri europei all’avanguardia in comparti quali l’intelligenza artificiale, la robotica, le infrastrutture digitali e di comunicazione, l’esplorazione spaziale e le biotecnologie. Al fine di trasformare i risultati dell’eccellenza accademica in opportunità imprenditoriali occorre potenziare il trasferimento tecnologico e superare la frammentazione del mercato digitale europeo, attuando una decisa azione di semplificazione normativa e favorendo l’integrazione di dati e sistemi informatici. (...).
Ho già ricordato che le imprese europee stanno riconfigurando le catene del valore a cui partecipano. A questo riguardo, le regioni meno sviluppate d’Europa offrono importanti opportunità. Se da un lato tali regioni hanno un costo del lavoro maggiore rispetto alle economie emergenti, dall’altro lato esse presentano un quadro economico e istituzionale stabile e integrato nel mercato unico e una collocazione geografica che limita i costi di trasporto e collegamento con i centri economici europei. Esse sono inoltre caratterizzate da ampie risorse di lavoro inutilizzate: un innalzamento dei loro livelli di reddito e consumo le renderebbe mercati di sbocco per molti beni e servizi. Per di più, alcune di queste regioni – ad esempio quelle che si affacciano sul Mediterraneo – beneficiano di condizioni climatiche favorevoli per la generazione di energie rinnovabili. Un rafforzamento dei programmi europei dei fondi strutturali e di coesione e delle capacità di esecuzione dei progetti finanziati può rendere queste aree attrattive come destinazioni di investimenti rispetto ai siti offshore. Oltre a valorizzare le catene di approvvigionamento europee, ciò promuoverebbe la convergenza economica e sosterrebbe la domanda interna in Europa.
Negli Stati Uniti, interventi in favore di aree in ritardo di sviluppo sono stati attuati con risultati positivi nell’ambito di programmi di reshoring. Grazie alla concessione di incentivi pubblici, alcuni Stati con minor reddito e bassi salari sono divenuti la destinazione di investimenti ingenti connessi con la produzione di energie rinnovabili e stanno registrando significativi incrementi dell’occupazione. La riconfigurazione delle filiere produttive globali offre un’occasione per rilanciare l’economia del Mezzogiorno d’Italia. Per rendere concreta tale opportunità occorrono politiche di attrazione dei capitali e il rafforzamento di fattori di contesto produttivo quali la dotazione di infrastrutture, la disponibilità di risorse di lavoro qualificate, l’efficienza delle Amministrazioni pubbliche. È essenziale perseguire con decisione gli obiettivi stabiliti in questi ambiti dal Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR).
Molti Stati membri della UE stanno affrontando la sfida dell’invecchiamento e del calo della popolazione. Secondo l’Eurostat nei prossimi quindici anni la popolazione in età lavorativa nell’Unione si ridurrà del 7 per cento, e senza gli afflussi di cittadini extracomunitari oggi previsti la flessione sarebbe addirittura del 13 per cento. Per evitare un forte calo dell’offerta di lavoro e quindi della crescita potenziale dell’economia europea occorre uno sforzo significativo per consentire un ingresso regolare e controllato di immigrati e la loro integrazione nel mercato del lavoro. La questione dei flussi migratori non può essere affrontata dagli Stati membri singolarmente. Una politica di immigrazione comune a livello europeo è necessaria sia per evitare squilibri tra Stati membri di fronte alla pressione asimmetrica esercitata dagli arrivi massicci da paesi del Sud del mondo, sia per coordinare gli ingressi regolari per motivi di lavoro. Essa è inoltre essenziale per attrarre lavoratori qualificati, in grado di contribuire all’innovazione nei sistemi produttivi anche come imprenditori. Date le difficoltà di reperimento di professionalità elevate da parte delle imprese in molti paesi avanzati, la concorrenza internazionale per questa tipologia di lavoratori è particolarmente intensa67.
Nell’attuale contesto internazionale, è superfluo commentare l’esigenza che la UE rafforzi la capacità di garantire autonomamente la propria sicurezza esterna. Un aumento degli investimenti nel campo della difesa al fine di raggiungere il livello del 2 per cento del PIL stabilito in sede NATO è stato invocato dai Capi di Stato e di governo nella dichiarazione di Versailles del marzo del 2022. Ciò nonostante, il bilancio militare europeo è tuttora di dimensioni limitate ed è caratterizzato da un’elevata frammentazione tra paesi che sbilancia la spesa verso le retribuzioni del personale e provoca sovrapposizioni di progetti, riducendone l’efficienza.
Investimenti comuni a livello europeo, volti a salvaguardare la nostra sicurezza esterna, consentirebbero di evitare duplicazioni di spesa, ottenere sinergie e conseguire economie di scala, liberando risorse da destinare alla realizzazione di infrastrutture e alle attività di ricerca e sviluppo. Ciò contribuirebbe a innalzare la produttività delle imprese anche in ambito civile.
Gli interventi che ho appena descritto richiedono un forte incremento degli investimenti pubblici e privati rispetto al periodo precedente la pandemia, in cui l’accumulazione di capitale nell’area dell’euro è stata assai contenuta. Gli investimenti e i contributi agli investimenti della Pubblica amministrazione – che prima della crisi finanziaria globale ammontavano al 4 per cento del PIL – nel decennio successivo alla crisi sono diminuiti di oltre un punto percentuale. Il quadro è ancora più deludente se dall’ammontare degli investimenti lordi si sottrae il deprezzamento dello stock di capitale: gli investimenti netti si sono azzerati tra il 2010 e il 2013 e sono poi rimasti stabili fino al 2019, risultando i più bassi tra le economie avanzate, ad eccezione del Giappone. La dinamica degli investimenti pubblici – sia lordi sia netti – è stata inoltre prociclica, registrando un calo durante la crisi finanziaria e quella del debito sovrano. In particolare, tra il 2011 e il 2019 i governi europei hanno investito circa 500 miliardi di euro in meno rispetto agli anni tra il 2000 e il 2009.
Una ricomposizione della spesa pubblica verso gli investimenti renderebbe il bilancio pubblico più favorevole alla crescita, soprattutto se l’accumulazione di capitale si concentrasse su capitoli di spesa con moltiplicatori elevati, quali la ricerca, le infrastrutture, l’istruzione. Un aumento in questa direzione si è osservato negli anni recenti, anche grazie al programma Next Generation EU (NGEU) varato all’indomani della pandemia. Gli investimenti privati hanno mostrato anch’essi una dinamica insoddisfacente a partire dalla crisi finanziaria globale. Nei quindici anni dal 2008 al 2023 sono cresciuti di appena il 7 per cento in termini reali, meno della metà rispetto al quinquennio precedente la crisi. Ciò ha contribuito a limitare il potenziale di crescita dell’economia europea. Ha inoltre accentuato il divario con l’economia degli Stati Uniti, in cui gli investimenti privati dopo la crisi finanziaria sono cresciuti del 50 per cento. Un aspetto spesso trascurato riguarda gli effetti negativi che il basso volume e la natura prociclica degli investimenti hanno avuto sulla politica monetaria. Durante la crisi finanziaria le banche centrali nell’area dell’euro si sono infatti trovate a dover sostenere per intero l’onere di stimolare la domanda, al fine di evitare che la recessione si trasformasse in una depressione. Di fatto, le politiche monetarie non convenzionali adottate in quella fase sono state in qualche misura la conseguenza delle politiche di austerità fiscale.
In precedenti interventi, due anni fa, riportavo le stime della Commissione europea relative al fabbisogno di investimenti pubblici e privati necessari per finanziare le transizioni climatica e digitale e per innalzare la spesa militare al 2 per cento del PIL. Quelle stime – allora dell’ordine di 600 miliardi di euro annui fino al 2030 – sono nel frattempo aumentate, a 800 miliardi di euro annui, così come sono aumentati gli interventi necessari per garantire la competitività e l’autonomia strategica dell’economia europea. È evidente che un programma di tale portata richiede di impegnare il bilancio della UE. Anche se la quota a carico del bilancio pubblico fosse contenuta – ad esempio, tra un terzo e un quarto del totale – l’onere sarebbe comunque pesante, e se dovesse ricadere soltanto sui singoli Stati membri alcuni paesi potrebbero ritrovarsi con un ammontare di investimenti insufficiente o con un assottigliamento dello spazio fiscale. E potremmo assistere a un aumento della frammentazione finanziaria e della divergenza tra paesi, a danno del mercato unico. Per di più, le misure che ho descritto in precedenza – nel campo della sicurezza energetica, della transizione digitale, della produzione di tecnologia, dell’immigrazione, della difesa – riguardano beni pubblici europei, che richiedono interventi anch’essi europei, in quanto un insufficiente ammontare di investimenti genererebbe esternalità e ripercussioni negative su tutti i paesi e i cittadini dell’Unione.
In questi settori i vantaggi di un’azione congiunta vanno ben oltre la sfera finanziaria. Investimenti coordinati e finanziati a livello europeo sono necessari per conseguire economie di scala e generare benefici per tutti i paesi. Eviterebbero duplicazioni di spesa e distorsioni del mercato unico, che sarebbero invece inevitabili se i progetti fossero realizzati a livello nazionale. Ed eviterebbero che la spesa possa ridursi nelle fasi di congiuntura sfavorevole, risultando prociclica. Rappresenterebbero un potente volano per attrarre risorse private. Il ricorso al bilancio della UE per finanziare investimenti in beni pubblici comuni determinerebbe forti vantaggi per la stessa governance europea. Investimenti finanziati con emissioni obbligazionarie comuni permetterebbero di creare un titolo europeo privo di rischio (safe asset). Ciò rimuoverebbe il principale ostacolo alla formazione di un’autentica Unione dei mercati dei capitali e rappresenterebbe un passo fondamentale per dotare l’Unione economica e monetaria di uno strumento indispensabile per finanziare il vasto programma di investimenti che ho descritto in precedenza. Più in generale, un’Unione dei mercati dei capitali è necessaria per allocare in modo efficiente i risparmi dei cittadini e per attrarre capitali dall’estero. Inoltre, con programmi di spesa su scala comunitaria, la politica di bilancio europea non sarebbe più la semplice somma delle politiche nazionali, ma potrebbe essere definita in funzione delle esigenze dell’economia dell’area.
Ciò garantirebbe coerenza tra l’orientamento della politica fiscale e quello della politica monetaria e consentirebbe di compiere un passo decisivo verso il completamento dell’Unione economica e monetaria, superando l’illusione che essa possa funzionare bene senza una capacità fiscale centrale permanente.
Dopo decenni in cui la globalizzazione sembrava inarrestabile, i conflitti geopolitici stanno ora minacciando il sistema di scambi internazionali e la stabilità dell’economia mondiale. Sono riemersi timori che il mondo possa tornare a lacerarsi tra blocchi economici, politici e persino militari contrapposti. La frammentazione commerciale e finanziaria pone rischi rilevanti per l’economia europea, data la sua ampia apertura internazionale. Più in generale, le dispute geopolitiche minacciano i principi di cooperazione internazionale e l’assetto multilaterale che dal secondo dopoguerra hanno sorretto lo sviluppo economico mondiale e favorito il mantenimento della pace tra le principali potenze. È nel nostro interesse difendere con determinazione i progressi sin qui conseguiti nel grado di apertura e integrazione globale. Al tempo stesso, non possiamo ignorare i rischi geopolitici e i loro effetti. Dobbiamo individuare le modalità per operare efficacemente in un mondo meno stabile e meno aperto. La soluzione è rafforzare l’economia europea. Riequilibrando il suo modello di crescita e valorizzando il mercato unico. Rendendola più competitiva. Ponendola all’avanguardia in campo tecnologico ed energetico. Mettendola in grado di difendere la propria sicurezza esterna. Conferendole la forza e l’autorevolezza necessarie per contare nel mondo e contribuire al dialogo e alla cooperazione tra paesi. La portata di questi impegni è enorme, e i paesi europei possono avere successo soltanto unendo le forze e progredendo verso un’Unione economica e monetaria vera e propria, con un’integrazione più stretta in termini sia finanziari sia fiscali. Alla metà del secolo scorso l’Europa fu creata per scelta, per non rivivere gli orrori della guerra. Di fronte ai rischi di frammentazione economica e ai conflitti che stanno emergendo in più aree del mondo, il suo rafforzamento è oggi un obbligo: per contrastare le divisioni esterne all’Unione dobbiamo poter contare su una maggiore integrazione interna. L’Europa deve convogliare a suo favore la forza collettiva dei paesi che la compongono.
Nel secondo dopoguerra Luigi Einaudi, mio illustre predecessore poi eletto Presidente della Repubblica italiana – conscio dell’esigenza di progredire verso una cooperazione sempre più stretta tra gli Stati europei – affermava: “La necessità di unificare l’Europa è evidente. Gli Stati esistenti sono polvere senza sostanza. Nessuno di essi è in grado di sopportare il costo di una difesa autonoma. Solo l’unione può farli durare. Il problema non è fra l’indipendenza e l’unione; è fra l’esistere uniti e lo scomparire”. Il suo monito è tremendamente attuale nei tempi di frammentazione e di guerra che stiamo vivendo. Le risposte che daremo dovranno essere all’altezza delle sfide che abbiamo di fronte. Grazie dell’attenzione".