La ricerca
Dall'America utili lezioni per l'Italia sui patti di non concorrenza
Dopo la decisione della Federal Trade Commission di vietarli, sarebbe utile gettare uno sguardo anche nel nostro paese, dove questo genere di contratti riguarda il 16 per cento dei lavoratori. Uno studio
Con una decisione controversa e presa con il voto favorevole dei tre componenti democratici contro i due repubblicani, martedì la Federal Trade Commission (Ftc), una delle due autorità antitrust negli Stati Uniti, ha deciso di vietare i patti di non concorrenza nei contratti di lavoro su tutto il territorio federale. I patti di non concorrenza erano già vietati in California da un secolo e mezzo e in altri tre stati, ma un movimento d’opinione nato sull’onda di una serie di studi accademici e di alcuni casi eclatanti (per esempio, i limiti alla mobilità dei lavoratori della catena di fast food Jimmy John’s) ha portato alla storica decisione della Ftc.
I patti di non concorrenza sono clausole che impediscono a un lavoratore di lasciare la propria azienda per andare a lavorare da un concorrente o avviare una nuova impresa nello stesso settore. Nascono come strumento per le imprese per proteggere informazioni confidenziali oppure per evitare che un lavoratore, dopo aver ricevuto una formazione costosa, un Mba per esempio, ne approfitti per andarsene altrove. Negli anni, però, ci si è resi conto che queste clausole si trovano anche nei contratti di lavoratori che non hanno accesso ad alcun segreto o certamente non fanno un Mba come i dipendenti di Jimmy John’s, parrucchieri oppure, in Australia, operatori dell’infanzia. In questo caso, l’unico obiettivo è limitare le possibilità di mobilità per i lavoratori per evitare che accampino pretese salariali. Inoltre, gli studi più recenti si spingono persino a ipotizzare che questo tipo di strumenti non serva neanche all’obiettivo originario, proteggere le aziende per stimolare investimenti in ricerca e sviluppo, perché soffocando la mobilità in realtà, a livello aggregato, danneggiano l’innovazione e quindi la crescita. In un periodo in cui gli Stati Uniti e molti altri paesi Ocse hanno sperimentato un mix di calo della crescita della produttività e del potere contrattuale dei lavoratori, questo tipo di clausole è rapidamente finito sul banco degli imputati.
Ma perché questo è un tema che dovrebbe interessare da questa sponda dell’oceano Atlantico? Gli Stati Uniti sono un paese con una mobilità del lavoro molto alta, in cui i lavoratori passano da un’azienda all’altra con molta più frequenza. Comprensibile, quindi, che le aziende cerchino di proteggersi. In Europa, e soprattutto in Italia, invece, il tasso di mobilità è decisamente più basso. Eppure, in una ricerca con Tito Boeri in corso di pubblicazione sul Journal of Law, Economics and Organization, abbiamo stimato l’incidenza di queste clausole in Italia trovando una sorprendente consonanza con il caso americano. Il 16 per cento dei lavoratori dipendenti del privato in Italia sono coperti da un patto di non concorrenza (sono il 18 per cento negli Stati Uniti). Dopo i più noti non-disclosure agreements (Nda) o accordi di riservatezza, si tratta delle clausole più diffuse nei contratti di lavoro. Questa percentuale sale al 32 per cento tra i dirigenti e al 21 per cento tra i lavoratori nelle professioni intellettuali e scientifiche e di elevata specializzazione, come ci si aspetterebbe. Più sorprendente, invece, è che il 13 per cento dei lavoratori nelle professioni cosidette non qualificate sia coperto da una tale clausola. Cosa giustifica il loro utilizzo in questo caso? Difficile che abbiano accesso a grandi segreti aziendali, liste di clienti selezionati o che ricevano una formazione costosa che l’azienda non vuole perdere. Ma le sorprese non sono finite. In Italia, i patti di non concorrenza sono regolati dal Codice civile che pone alcuni requisiti base e in particolare impone che le clausole abbiano un ambito settoriale e geografico ben definito e che sia prevista una compensazione per il lavoratore. Tra metà e due terzi dei patti in Italia non sembra rispettare questi requisiti dato che nella clausola manca almeno uno di questi elementi. Potrebbe trattarsi di disattenzione o “malcostume italico”. Ma, invece, anche in questo, è forte la consonanza con gli Stati Uniti dove le clausole vengono utilizzate dalle imprese anche negli stati dove sono vietate da diversi decenni.
Una delle ragioni è che non ci sono costi a inserire una clausola nulla in un contratto di lavoro. Alla peggio non avrà effetto. Alla meglio servirà comunque a intimorire il lavoratore (quanti conoscono la legislazione al riguardo? Quanti, soprattutto tra i meno qualificati, si rivolgono a un consulente, un sindacalista o un giudice?). Infatti, i risultati del nostro studio mostrano che il comportamento dei lavoratori in termini di ricerca di un altro posto di lavoro non cambia se la clausola è scritta bene o se è molto probabilmente nulla. Non è detto che la decisione della Ftc passi il vaglio delle corti. Molti commentatori mettono in dubbio che un’authority possa prendere una decisione così politica, che dovrebbe invece rimanere nelle mani del Congresso. Ma è sicuramente una decisione che farà discutere e dovrebbe far riflettere anche in Italia. Ci sono altri modi per proteggere i segreti aziendali (gli accordi di segretezza) o gli investimenti in formazione (clausole di rimborso). Siamo sicuri che siano così necessarie clausole ulteriori che limitano la già scarsa mobilità dei lavoratori italiani? Come si può limitare l’abuso dei patti di non concorrenza, dando alle imprese i giusti incentivi per rispettare le regole esistenti?