Ilva closed in Italy
La scelta “green” di Urso di spegnere l'Afo5 segna la fine della siderurgia a Taranto
Proprio il ministro che ha promesso di fare di Ilva “la più grande acciaieria green d’Europa”, si tira indietro. In questi giorni gli operai non in cassa integrazione sono stati invitati a restare a casa per il ponte del Primo maggio Inaudito per una fabbrica a ciclo continuo che non si è mai fermata
Taranto. Chi l’avrebbe mai detto che sarebbe stato Adolfo Urso, il ministro del Made in Italy, a spegnere per sempre Afo5, l’altoforno più grande d’Europa? E a chiudere per sempre il ciclo integrale dell’acciaio italiano, quello con cui Taranto ha fatto grande il paese?
La decisione è stata comunicata lunedì pomeriggio, direttamente dal ministro ai sindacati metalmeccanici. Ilva oggi viaggia su una produzione al minimo storico, di 1,3 milioni di tonnellate di acciaio annue. Persino con ArcelorMittal non era mai scesa sotto i 3 milioni. In questi giorni gli operai non in cassa integrazione sono stati invitati a restare a casa per il ponte del Primo maggio Inaudito per una fabbrica a ciclo continuo che non si è mai fermata, neppure durante la pandemia.
L’altoforno 5 fu spento nel 2015, mandando 4 mila lavoratori a casa, per adeguarlo ai lavori dell’Autorizzazione integrata ambientale (Aia). Doveva essere rifatto entro un anno. Ma i commissari straordinari dell’epoca non attuarono nessuna delle prescrizione dell’Aia, compensando le emissioni attraverso il dimezzamento della produzione. Solo nel 2018, con l’arrivo di ArcelorMittal, il piano ambientale fu attuato, a partire dalla copertura, unica al mondo, dei parchi minerali dove vengono stoccate le materie prime per gli altoforni. Per questo, a ragione, oggi i commissari straordinari governativi, come già l’ex ad Lucia Morselli, possono ben dire, come ha fatto Giancarlo Quaranta sul palco di Fdl a Pescara, che Ilva è lo stabilimento a ciclo integrale più ambientalizzato al mondo, nonché l’unico a livello europeo adeguato alle Bat Conclusion della Commissione Ue.
Il rifacimento dell’Afo 5 è sempre stato previsto in tutti i piani industriali e ambientali, non solo in quello dell’aggiudicazione ad ArcelorMittal del 2017 (e nel relativo dpcm col piano ambientale), ma anche nell’ultimo piano industriale di Acciaierie d’Italia, presentato dall’allora commissario Domenico Arcuri a dicembre 2020 con la supervisione dei ministri competenti, Roberto Gualtieri per il Pd e Stefano Patuanelli per il M5s. Il piano del campolargo per Ilva prevedeva una fabbrica a 8 milioni di tonnellate (break even point) al 2023 attraverso Afo 4, un forno elettrico da 2,5 milioni tonnellate e un investimento di 200 milioni per il revamping di Afo5 a 4 milioni di tonnellate.
Le nuove tecnologie consentono di implementare ulteriormente l’ambientalizzazione degli altiforni attraverso l’alimentazione a polimeri, plastiche, biocarburanti e con stoccaggio e riciclo di CO2. Nessuno ha mai messo in dubbio il rifacimento di Afo5, né Lucia Morselli né il governo Draghi. Tutti i sindacati metalmeccanici, fino a un mese fa, hanno ribadito che solo la riaccensione di quell’impianto avrebbe permesso la salvezza dell’azienda e la continuità produttiva della fabbrica, garantendo un pieno rispetto ed equilibrio tra il diritto al lavoro e il diritto alla salute. Finché è arrivato Urso. E ha deciso che Afo5 non si fa più.
La motivazione fornita dal ministro è che l’attuale piano regolativo europeo impone la fine delle quote gratuite al 2030, e quindi non si può investire su un altoforno che fra cinque anni potrebbe essere spento. Ma tutti sanno che queste regole verranno posticipate, e nessuno stato europeo sta totalmente dismettendo gli altoforni. Inoltre è incredibile che proprio il governo italiano che più di tutti ha contestato quelle regole green decise dalla Commissione in scadenza, e che il partito (FdI) che sta facendo una campagna elettorale per le europee – candidando “Giorgia” capolista – attaccando tutte le regole europee, dal vino alle auto elettriche, dalla farina di insetti alla carne sintetica, sottostia accondiscendente ai diktat che distruggerebbero la siderurgia made in Italy. Perché un piano a elettrico comporterebbe il dimezzamento della forza lavoro, e un fabbisogno di rottami che oggi scarseggiano, per un acciaio di qualità inferiore.
E invece proprio il ministro che ha promesso di fare di Ilva “la più grande acciaieria green d’Europa”, si tira indietro. Forse la volontà di Urso di tenere buoni Michele Emiliano e il sindaco di Taranto, che chiedono un accordo di programma per chiudere l’area a caldo, ha battuto i sogni sovranisti e persino un po’ sovietici del ministro del Made in Italy.