Il Mef prestigiatore

Luciano Capone

Le previsioni di crescita dell'Ocse (+0,7%) non sono incompatibili con quelle del Def (+1%). Il problema è il bilancio 2025: gli obiettivi di deficit indicati ai mercati sono incompatibili con le promesse fatte agli elettori

In Italia l’attività economica è debole, ma non mancano i segnali positivi, secondo l’Ocse. Nel suo Economic outlook, dal titolo “Una ripresa in atto”, l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico mostra prospettive globali in miglioramento, sebbene la crescita rimanga modesta: il pil mondiale per il 2024 è previsto in aumento del 3,1%, come nel 2023, mentre nel 2025 salirà leggermente al 3,2%.

Si tratta di una velocità di marcia più lenta di quella osservata nel decennio che ha preceduto la crisi finanziaria globale, ma vicina al pil potenziale stimato sia nelle economie avanzate sia in quelle emergenti. In sostanza, il gap si sta chiudendo. È rilevante il fatto che la ripresa si stia sviluppando in un contesto di politica monetaria ancora restrittiva e mentre l’inflazione scende più del previsto. E in questo contesto globale, quali sono le previsioni per l’Italia?

Secondo l’istituto con sede a Parigi, per l’anno in corso si prevede una crescita dello 0,7% che salirà all’1,2% nel 2025: si tratta di stime non molto diverse da quelle del governo, contenute nel Def (1% nel 2024 e 1,2% nel 2025). L’Ocse segnala una crescita debole nell’ultimo trimestre del 2023 (0,2%), in un contesto di esplosione dei bonus edilizi: in questo senso l’inevitabile fine del Superbonus è vista come un rischio al ribasso, qualora inneschi una contrazione più forte del previsto nel settore dell’edilizia.

Ma ci sono anche dei fattori che potrebbero migliorare le previsioni. Uno stimolo per la crescita è, indubbiamente, la realizzazione del Pnrr che può spingere gli investimenti pubblici. L’Ocse segnala anche un buono stato di salute del mercato del lavoro, con un tasso di disoccupazione molto basso rispetto agli standard storici dell’Italia, e le prime indicazioni di un aumento dei salari (+3%) grazie ai rinnovi della contrattazione collettiva.

L’Italia sta registrando anche una forte disinflazione, dovuta in buona parte al calo dei prezzi dell’energia nel corso del 2023: l’inflazione è scesa da oltre il 12% a novembre 2022 all’1,2% a marzo 2024. Vuol dire che l’andamento dei prezzi sarà principalmente guidato da fattori interni, ma il fatto che l’Italia sia stato il paese in cui i salari hanno perso più potere d’acquisto (circa il 10%) e dove le imprese sono riuscite a conservare i propri margini, vuol dire che c’è spazio per una fase di aumenti salariali.

La combinazione di un incremento degli stipendi, che già si inizia a vedere, unita a un’inflazione contenuta può consentire un recupero dei salari reali che potranno sostenere i redditi delle famiglie e la domanda interna nei prossimi mesi. Ci sono, in sostanza, sia rischi al rialzo sia al ribasso.

Insomma, il quadro delineato dall’Ocse non è affatto incompatibile da quello delineato da Giorgia Meloni e Giancarlo Giorgetti nel Def. È vero che il governo prevede una crescita più alta (1% contro 0,7% dell’Ocse), ma non sarebbe la prima volta che le previsioni del Mef – inizialmente definite ottimistiche – si rivelino più azzeccate rispetto a quelle di altri osservatori internazionali. Ad esempio, a gennaio l’Ocse quantificava in +0,7% la crescita nel 2023, una stima che si è rivelata sottostimata di due decimali rispetto ai dati di marzo dell’Istat (+0,9%).

E sono le stesse stime preliminari dell’Istat, pubblicate il 30 aprile, a mostrare nel primo trimestre del 2024 abbastanza vivace: +0,3% rispetto al trimestre precedente e +0,6% rispetto all’anno precedente. Con questo risultato la variazione acquisita per il 2024 è pari allo 0,5% del pil, ovvero la metà della crescita annuale prevista nel Def.

L’obiettivo di crescita del governo, su cui c’è stato molto scetticismo, è quindi a portata di mano. Ciò che invece risulta più complicato sono gli obiettivi di bilancio, almeno per quanto riguarda l’anno prossimo. “Il deficit si ridurrà ma rimarrà al di sopra del 3% fino al 2025 – scrive l’Ocse – il debito pubblico è elevato e vi sono notevoli pressioni sulla spesa derivanti dalle esigenze di investimento e dai costi dell’invecchiamento”. Pertanto è necessario “un aggiustamento fiscale ampio e duraturo nell’arco di diversi anni per far fronte alle future pressioni sulla spesa, riportando al tempo stesso il rapporto debito/pil su un percorso più prudente e rispettando le nuove regole fiscali europee”.

Con un debito che si prevede in crescita verso il 140% nel prossimo triennio e una spesa per interessi in aumento al 4,4%, un aggiustamento fiscale è indispensabile nel medio termine e inevitabile nel breve. Il problema del governo è che quasi tutto l’aggiustamento fiscale previsto nel Def si basa sulla fine dei tagli fiscali temporanei, come la decontribuzione e la riduzione del primo scaglione Irpef (costo complessivo: circa 16 miliardi di euro, ovvero 0,8 punti di pil). Ma il ministro dell’Economia Giorgetti, e la stessa premier Meloni, si sono già impegnati pubblicamente a rinnovare (se non a stabilizzare) il taglio delle tasse.

Le due versioni, quella scritta e quella orale, sono ovviamente incompatibili. Alla vigilia delle elezioni europee, il governo non ha voluto svelare l’enigma: come intende ridurre il deficit rifinanziando 16 miliardi di taglio del cuneo. Ma subito dopo dovrà dare una chiara indicazione ai mercati, all’Europa e ai cittadini.

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  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali