In cerca d'acqua
Un Superbonus per tappare le falle nel sistema idrico italiano
Con i soldi in arrivo dall'Ue avremmo potuto cominciare a sistemare una rete colabrodo che asseta campagne e abitazioni e che è poco curata e vecchia. Ma la battaglia si può ancora vincere
E’ una primavera straordinariamente piovosa, ma i climatologi prevedono un’estate flagellata dalla siccità. Se sarà così, se viaggiando vedrete campi asciutti e zolle spaccate, oppure guarderete il corso dei fiumi accorgendovi che il livello delle acque è sempre più basso, o – ancora – sarete avvertiti di possibili riduzioni delle forniture idriche, non incolpate con rassegnata ripetitività solo il riscaldamento del pianeta. L’acqua che ci serve in realtà ci sarebbe, ma la buttiamo. La perdiamo per una rete che avrebbe bisogno di essere ammodernata con investimenti che aspettano da decenni. Ma mancano i soldi per farlo. Ci sarebbero stati, nel Pnrr, ma non ne abbiamo chiesti abbastanza. E così spendiamo 220 miliardi per il Superbonus che devasta i conti pubblici ma non abbiamo pensato che con lo 0,68 per cento di quella cifra, in arrivo dall’Ue, avremmo cominciato a sistemare una rete colabrodo che asseta campagne e abitazioni. Una ragnatela che va dalla sorgente al rubinetto, che preleva 9 miliardi di metri cubi di acqua all’anno, ma che è così poco curata e vecchia (il 60 per cento degli acquedotti ha più di 30 anni, il 25 addirittura più di 50) da lasciare per strada il 42,4 per cento del liquido trasportato (basterebbe per dissetare 43 milioni di persone). E non basta. Siamo spreconi anche con l’acqua piovana: e gli agricoltori spesso in ginocchio per la siccità estiva denunciano che l’89 per cento di quella che scende dal cielo finisce in mare senza rifornire bacini idrici e laghetti privati. E ancora: siamo scarsi anche nel riutilizzo. Appena il 4 per cento di quella usata viene recuperata e rimessa in circolo per usi non potabili.
C’è poca acqua, insomma e bisogna intervenire presto. Le risorse sono poche, c’è chi le usa e chi invece si arrende. La classifica degli sprechi è impietosa nel segnalare un sud allo sbando e un nord invece progressivamente più virtuoso, A livello regionale va malissimo in Basilicata (65,5 per cento di dispersione idrica) e in Abruzzo (62,5 per cento), male in Molise (53,9 per cento), Sardegna (52,8) e Sicilia (51,6). Veneto ( (42,2) e Friuli (42,3) sono in linea con la media nazionale. Virtuosi sono invece la provincia autonoma di Bolzano (28,8 per cento), l’Emilia Romagna (29,7) e la Valle d’Aosta (29,8). Scendendo nel dettaglio dei capoluoghi di provincia la divisione nord-sud è ancora più evidente a livello di efficienza e di sprechi. La massima criticità si registra a Potenza, dove il 71 per cento dell’acqua si disperde inutilmente nel trasporto verso i rubinetti. Ma sono percentuali da brivido anche quelle di Chieti (70,4 per cento) e L’Aquila (68,9 per cento). Male anche Latina (67,7), Cosenza (66,5), Campobasso (66,4) Massa (65,3), Siracusa (65,2) e Vibo Valentia (65). Tutte reti colabrodo, tra rassegnazione e difficoltà nell’individuare le perdite: basti pensare che un foro di 3 millimetri in una conduttura può far sprecare 340 litri al giorno. Al nord si sono messi al lavoro e le cose sono cambiate: In sette città si rilevano dispersioni inferiori al 15 per cento. Como la migliore (9,2 per cento di perdite), poi Pavia (9,4), Monza (11), Pordenone (12,1), Milano 13,4. Bene anche Macerata 13,9) e – sorpresa – Lecce (12 per cento).
Le classifiche dimostrano che la battaglia dell’acqua si può vincere. Ma come? In Acea, che è il principale gestore italiano e controlla il 16 per cento della distribuzione italiana dell’acqua, la strada l’hanno ben chiara. Per migliorare il settore bisogna investire e ragionare in termini industriali. L’amministratore delegato Fabrizio Palermo lo ha spiegato prima a Davos, quando al World Economic Forum ha chiesto di “mettere l’acqua al centro dell’agenda”. Di trattarla insomma come gli altri settori strategici per lo sviluppo, l’energia o le telecomunicazioni. E lo ha ribadito durante la Giornata mondiale dell’acqua, quando ha chiesto un Piano Marshall per le infrastrutture europee (risorse per 50 miliardi di euro) e un commissario ad hoc per il settore a Bruxelles. L’acqua è un diritto di tutti, e questo è universalmente accettato, ma il suo trasporto non è un affare amatoriale. Perché dopo l’adduzione dalla sorgente l’acqua deve essere smistata nei centri idrici, va alla separazione, entra nella rete capillare, deve essere mantenuta a una pressione adeguata per tutti gli utenti (garanzia di una colonna di 10 metri), e bisogna calcolare con esattezza la presunzione di consumo pro capite in base alle stagioni o all’afflusso turistico.
La rete quindi deve essere digitalizzata e improntata all’intelligenza predittiva, che deve tenere conto sia dei consumi tradizionalmente costanti, sia di quelli nuovi, nati con i cambiamenti tecnologici. A Seattle, spiegano, il comune ha costretto Microsoft a un accordo per compensare il maggior uso di acqua legato al raffreddamento dei server. E si sta studiando come intervenire dopo aver scoperto che per fare 50 domande su ChatGPT si consuma mezzo litro d’acqua. Ma bisogna prevedere anche i fenomeni naturali. Nelle Marche si è potuto mettere in sicurezza il rifornimento idrico dopo il terremoto del 2016, che ha spostato le falde acquifere dei Sibillini, perché esisteva una simulazione di scenario idrologico che considerava quell’eventualità. E se si lavora in questo senso i risultati non mancano: a Roma, città estesa e difficile per la conformazione geografica (i Sette Colli non aiutano…) la dispersione idrica è scesa al 27 per cento, un risultato eccellente e nella media europea. E migliorerà ancora quando saranno terminati i lavori per il raddoppio dell’Acquedotto del Peschiera (1,5 miliardi di spesa). Tecnologia e cervelli assieme, perché ci sarà sempre più uso dell’intelligenza artificiale (per questo in Acea è arrivato da poco Alessandro Benanti, fratello di Paolo Benanti, il teologo a capo della commissione sull’intelligenza artificiale).
E ovviamente risorse per ammodernare le infrastrutture, con la formula che in Acea reputano vincente di affiancare la managerialità privata alla sensibilità dell’azionista pubblico. Un modello che può allargarsi se si procede verso l’armonizzazione del sistema di distribuzione, con ambiti territoriali più grandi di quelli attuali, soffocati dalla presenza di 2.391 gestori, spesso solo in vita perché feudi politici locali. Una foresta pietrificata che andrebbe diradata come fatto nel settore bancario. Servono volontà e risorse. L’Italia avrebbe bisogno di 1,5 miliardi di investimenti all’anno per allinearsi alla media europea di 78 euro per abitante/anno (ora sono solo 56). Potrebbe così tappare le falle, recuperare il 23 per cento di acque reflue (ora solo il 4 per cento) e il 35 per cento di quelle meteoriche (ora l’11). Ma il Pnrr è avaro (appena 4 i miliardi destinati al settore idrico su un totale di 192) e oltre alle risorse proprie delle aziende più grandi altri fondi non se ne vedono ancora. Li ha mandati a fondo il Superbonus, che, gratuitamente, ci regala anche il rischio dei i rubinetti a secco.