le anomalie
I tre tabù fiscali violati dal Superbonus
Incentivo superiore al 100%, moneta fiscale e ora ristrutturazione del debito: obbligo di allungare il credito da 4 a 10 anni. Le linee rosse superate con i bonus edilizi sono una lezione costosissima per un paese indebitato come l'Italia
"Non sarà una possibilità ma un obbligo” spalmare i crediti del Superbonus da 4-5 anni a 10 anni, ha detto mercoledì il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti. “Gli emendamenti di ampliamento delle deroghe non saranno presi in considerazione”. Forse questo intervento tombale chiuderà la storia infinita dei bonus edilizi. Proprio per questo vale la pena ricostruirla per riconoscere i tre tabù che sono stati abbattuti, e che affondano le radici – prima ancora che nel governo Conte II, che si inventò il Superbonus – nel “programma del governo del cambiamento”, cioè il Conte I.
L’idea dei gialloverdi – in particolare dei più autorevoli esponenti della frangia anti-euro, Alberto Bagnai e Claudio Borghi – era di perseguire una politica fiscale fortemente espansiva. Lo strumento principe per aggirare i vincoli fiscali europei dovevano essere i cosiddetti “minibot”, cioè dei titoli di stato di piccolo taglio con cui pagare i fornitori della pubblica amministrazione. Questa idea, che non trovò traduzione pratica anche grazie alla ferma opposizione dell’allora ministro dell’Economia, Giovanni Tria, doveva però essere piaciuta al premier, visto che – consapevolmente o no – dovendo estrarre un coniglio dal cappello per compensare gli effetti recessivi dei lockdown, Conte si inventò un bonus senza precedenti e che avrebbe infranto tre tabù della politica fiscale.
La prima anomalia stava proprio nel livello dell’agevolazione: 110 per cento delle spese sostenute per la riqualificazione energetica degli edifici (originariamente il sottosegretario Riccardo Fraccaro e il ministro Stefano Patuanelli volevano addirittura il 120 per cento!). È evidente che l’intenzione non era semplicemente quella di incentivare fortemente gli investimenti desiderati, ma di distribuire denaro a pioggia per stimolare la ripartenza. In un periodo di recessione pandemica e bassa inflazione – e apparentemente senza sospettare gli effetti che il bonus avrebbe potuto generare – si voleva creare benessere dal nulla: gratuitamente! Tuttavia la generosità non bastava.
E arriviamo al secondo tabù. I contribuenti avrebbero comunque dovuto anticipare i soldi per l’intervento, da recuperare nel tempo se, e solo se, avevano sufficiente capacità fiscale. Così, per allargale la platea dei beneficiari vennero introdotti lo sconto in fattura e l’illimitata cedibilità del credito. Questo è il passaggio cruciale: in tal modo, infatti, il credito d’imposta è diventato una sorta di moneta parallela, che poteva essere utilizzata dal contribuente per pagare l’impresa edile, dall’impresa edile per estinguere i debiti con la banca, dalla banca per regolare i conti col fisco. La moneta fiscale, appunto.
A differenza della proposta di Bagnai e Borghi – che prevedeva una decisione da parte del Mef in relazione alla quantità di minibot stampare – la moneta fiscale di Conte e Roberto Gualtieri era priva di controllo. Dipendeva, infatti, dalla domanda di ristrutturazioni: ma, essendo queste ultime gratuite (copyright Conte), la richiesta era potenzialmente infinita. L’unico limite era dal lato dell’offerta: la capacità dei costruttori di fare i lavori, trovare materiali, reclutare gli operai... Ed è tale squilibrio tra domanda e capacità produttiva che ha innescato l’inflazione nel settore edile.
La Ragioneria generale dello Stato, chiamata a quantificare gli effetti finanziari dell’operazione, ne sottostimò ripetutamente i costi: non capì che, in un meccanismo all you can eat, i contribuenti avrebbero assaltato il buffet e fatto indigestione. Così il sistema dei bonus edilizi è completamente sfuggito di mano e ha prodotto costi per 220 miliardi di euro (circa 150 in più delle previsioni dei tecnici del Mef).
La stretta voluta nel 2023 da Giorgia Meloni e Giorgetti è stata completamente vanificata dalle deroghe introdotte in Parlamento, nonostante le rispettive relazioni tecniche garantissero che avrebbero fermato l’emorragia. Altre previsioni errate, quindi. La moneta fiscale ha fatto esattamente quello che, solo pochi anni prima, molti avevano avvertito che avrebbe fatto: ha aperto una voragine nei conti, privando il governo di qualunque ossigeno per gli anni a venire.
Arriviamo così all’atto finale. Giorgetti è stato costretto non solo a bloccare completamente il bonus nel futuro, ma ha ipotizzato “l’obbligo” di spalmare la fruibilità dei crediti su dieci anni anziché quattro-cinque, per dare un po’ di respiro alla finanza pubblica. L’Ufficio parlamentare di bilancio (Upb) ha effettuato una simulazione dell’allungamento del Superbonus maturato nel 2023: l’impatto, ora riferito al periodo 2024-2027, verrebbe così diluito nel decennio 2024-2033. Anziché crescere, il debito si stabilizzerebbe: nel 2027 si attesterebbe al 137,7 per cento invece che al 139,6 previsto dal Def secondo le regole attuali.
Ma come si chiama quell’operazione in cui un debitore, non potendo o volendo onorare i propri impegni, comunica unilateralmente al creditore di allungare la scadenza dei pagamenti? Se sarà questo l’emendamento che il governo presenterà nei prossimi giorni, l’Italia avrà deliberato la prima ristrutturazione del debito della sua storia. In maniera un po’ più brutale, si può dire che farà default sul Superbonus. Un scelta forse necessaria, quella proposta da Giorgetti, anche se imporrà dei costi ai creditori coinvolti.
È l’ultimo dei tabù per un paese fortemente indebitato come l’Italia: ristrutturare il debito del Superbonus per salvaguardare la sostenibilità del debito sovrano. Ed è la conseguenza della violazione degli altri due tabù: un credito fiscale sopra il 100 per cento ha richiesto la moneta fiscale che, a sua volta, ha portato a una ristrutturazione del debito. In altri tempi e contesti, la spirale del Superbonus avrebbe risucchiato tutto il paese. È una lezione che costerà tantissimo, ma si spera almeno che sia stata imparata.