Un Guaio da risolvere
La riscrittura del Pnrr porta la quota dedicata al sud dal 40 per cento al 19. I dati
La spesa media sarà molto più bassa rispetto alla regola e ai programmi previsti dall'Europa. Anziché ridurre i divari, il piano pensato per aiutare il Mezzogiorno ora lo penalizza. Numeri, rischi e prospettive
Crescono gli applausi al “grande successo” della revisione del Pnrr e alla riforma della coesione del ministro Fitto. Arrivano soprattutto da chi pensa che l’accentramento muscolare produca risultati duraturi e che la voce grossa fatta in nome e per conto del Pnrr basti da sola a superare le carenze del paese, compresa la mancanza di dialogo fra istituzioni. Vedremo questo metodo alla prova dell’attuazione dei decreti Pnrr e coesione. Come andrà con gli elenchi di opere cancellate e riscritte in due mesi su Pnrr, Piano nazionale complementare e fondi europei per le coesione, vedremo queste macchine da guerra della burocrazia, consunte come i carri armati di Mussolini, che risultati porteranno su programmi di interventi che valgono più di 300 miliardi di euro.
Un primo assaggio di quello che succederà nei prossimi mesi ce lo danno ora le opere idriche della seconda tranche finanziata con il Pnrr, quella di 1.024 milioni aggiunta dalla revisione Fitto-Meloni approvata dall’Ecofin l’8 dicembre scorso. Questi soldi si sommano ai 900 milioni iniziali programmati da Draghi: siamo nella missione 4, componente 2, investimento 4.2, una delle grandi priorità del Paese, riduzione delle perdite di acqua e sicurezza idrica contro i cambiamenti climatici.
Ebbene, dei 70 interventi finanziati con 959 dei 1.024 milioni, solo nove sono localizzati al Sud per un importo pari al 18,6 per cento del totale dei fondi. Il decreto del ministero delle Infrastrutture con la “graduatoria” delle proposte è stato firmato il 6 maggio. Il risultato di questo clamoroso squilibrio è che la quota per il Mezzogiorno dell’intero capitolo (1.924 milioni) fra prima e seconda tranche passa dal 40,4 per cento sul bando impostato da Draghi e Giovannini al 19 per cento finanziato ora dal trio Meloni-Fitto-Salvini (che diventa una media del 29 per cento). Una quota media che è palesemente fuori-regola anche rispetto ai vincoli del Pnrr (40 per cento minimo al Sud).
Si dirà: che c’entra la revisione del Pnrr portata a termine da Fitto? Molti dimenticano che – fra un conflitto con i ministri più o meno in ritardo, uno con i comuni sulle piccole opere e uno con le Regioni sulla sanità, fra un definanziamento e un rifinanziamento nel grande gioco delle “tre carte” – si sono persi 14 mesi per fare quella revisione. Doveva essere questione di settimane, quando si insediò il governo Meloni, poi un continuo di messaggi rassicuranti: è finita 15 mesi dopo. Un terzo del tempo restante per completare il Pnrr. Certo, la carenza di progetti idrici nel Mezzogiorno è colpa soprattutto della carenza progettuale che è il male d’Italia – pensare ai nastri di apertura dei cantieri prima ancora di progetti fatti bene - ma che al Sud si sconta maggiormente per i ritardi cronici dell’azione della pubblica amministrazione. Se vogliamo, questa graduatoria di opere finanziate riconferma le diversità e le disparità delle condizioni di base del Paese. La conferma arriva anche dal fatto che fra le decine di opere non ammesse al finanziamento, rimaste fuori classifica, la stragrande maggioranza sono localizzate ancora al Nord che evidentemente aveva una riserva ricca di proposte.
Ma il Pnrr non doveva servire proprio a ridurre questi divari? Invece la fretta ulteriore che inevitabilmente ha prodotto il ritardo della revisione del Pnrr ha esasperato i divari, visto che, per chiudere entro giugno 2026, poco più di un anno di tempo, serve avere non solo buoni progetti ma anche progetti pronti e “cantierabili”.
La fretta e i rapporti muscolari – anziché collaborativi - acuiscono le fragilità, esasperano i divari, non li riducono. E sarà interessante vedere che Italia ci lascerà il Pnrr. Anziché concentrarsi a migliorare quello che va male, sembra che l’unico obiettivo sia quello di mettere sul piatto altre decine di miliardi di opere da cancellare con un colpo di penna per finanziarne altre che presumibilmente non saranno pronte. Perché, come scrivono i maestri della pianificazione territoriale del sistema dei trasporti (Paolo Costa a sinistra ed Ercole Incalza a destra) più che elenchi di opere servirebbe un serio Piano generale dei trasporti che anzitutto ci dicesse dove vogliamo andare, chi vogliamo essere e come e con quali infrastrutture portuali e ferroviarie vogliamo stare al centro del Mediterraneo. Temi politici, non tecnici, ignorati mentre il Piano generale dei trasporti viene cancellato dal codice degli appalti e di pianificazione non c’è neanche una traccia nell’allegato Infrastrutture al Def che da venti anni è stata la sede per fare quel po’ di programmazione di cui siamo stati capaci.