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Bayer ride, Bayer piange
A Leverkusen, la storica farmaceutica è in crisi, ma la squadra di calcio di cui è proprietaria fa miracoli. Basteranno?
Bisogna scomodare Charles Dickens e il suo “Racconto di due città” per cogliere l’essenza di quanto succede in queste settimane e in questi giorni a Leverkusen. Euforia orgogliosa e ansia esistenziale convivono nel cuore profondo della città renana. Imbattuto da 48 partite, il Bayer 04, la squadra di calcio che non ha mai vinto nulla, trionfa con cinque giornate di anticipo nella Bundesliga, guadagna la finale della Coppa di Germania ed entra anche in quella di Europa League, ipotecando un triplete da sogno. Ma quello che per il club è l’annus mirabilis, è invece l’annus horribilis per la Bayer Ag, la multinazionale farmaceutica che ha creato la città e la stessa società di calcio di cui è proprietaria, ha oltre 100 mila dipendenti in tutto il mondo, ma perde miliardi, continua a ridurre il personale e vede il suo titolo in Borsa ai minimi degli ultimi vent’anni.
La città prepara la più grande festa della sua storia. “Sarà un party come non ne abbiamo mai visti”, dice il borgomastro socialdemocratico Uwe Richrath, 63 anni, primo cittadino da oltre nove, colto da improvvisa celebrità globale. Intervistato dalle televisioni di tutta Europa e dai media internazionali, destinatario di mail e lettere di congratulazioni da ogni angolo del mondo, compresa Wuxi, la megalopoli cinese (7 milioni di abitanti) gemellata con Leverkusen, Richrath prevede la partecipazione di 80 mila persone, la metà della popolazione, ma deve ancora inventarsi una soluzione. Leverkusen infatti non è Monaco di Baviera, dove il balcone della splendida Rathaus gotica offre da sempre agli odiati nemici del Bayern, spodestati dopo undici campionati vinti consecutivamente, un magnifico palcoscenico per alzare il Meisterschale, l’enorme piatto d’argento che va ai vincitori della Bundesliga. Nella città sul Reno, il comune occupa invece i piani più alti di un anonimo centro commerciale. “Abbiamo alcune idee e comunque vestiremo la città di rosso e di nero”, annuncia Richrath, determinato anche a dedicare una piazza o una strada a Xabi Alonso, l’allenatore spagnolo che ha portato la squadra in paradiso facendole anche giocare quello che al momento è probabilmente il miglior calcio d’Europa.
I successi travolgenti del Werkself, letteralmente la squadra della fabbrica (il nome di battaglia del Bayer 04), servono in realtà a massaggiare l’anima di una città sull’orlo di una crisi di nervi. “Se la squadra non vincesse giocando un calcio così bello, lo stato d’animo della città sarebbe molto peggiore. In questo momento il Bayer 04 è l’elisir di lunga vita di Leverkusen, l’ingrediente della sua autostima”, dice uno dei manager della società farmaceutica.
Quando arrivate da una delle due autostrade, l’A1 e l’A3, che proprio in mezzo a Leverkusen si incrociano, il celebre logo (un cerchio con dentro il nome Bayer scritto in orizzontale e verticale) è la prima cosa che vedete, troneggia a 118 metri di altezza proprio sopra gli stabilimenti del gruppo chimico. “La croce sul petto”, recita l’inno del Bayer 04, che ha lo stesso simbolo ma sorretto da due leoni.
E’ una storia che inizia alla fine dell’Ottocento, l’industrializzazione tedesca era stata avviata nel 1870 dopo l’unificazione, quando l’azienda chimica Friedrich Bayer decise di espandere la propria attività da Wuppertal a nord di Colonia, installandosi a Wiesdorf am Rhein, sulle rive del Reno dove ancora oggi le chiatte giungono cariche di materie prime e ripartono con i prodotti finiti. Era il 1891. In pochi decenni l’insediamento industriale divenne il centro dell’industria chimica tedesca, attirando migliaia di lavoratori da tutta la valle della Ruhr e inglobando decine di villaggi confinanti. Al punto che nel 1930 il governo della Prussia concesse a quell’area metropolitana nata dal nulla lo status e i diritti di un comune, che prese il nome da Carl Leverkus, l’imprenditore che nel 1860 per primo aveva aperto una fabbrica di coloranti poi rilevata dalla Bayer. Il prodotto più celebre e leggendario di Bayer Ag fu l’aspirina, brevettata nel 1899, anche se poi perse il diritto a usare il marchio in molte nazioni dopo la Prima guerra mondiale, quando le sue proprietà in America vennero confiscate. Ancora oggi Bayer Ag vende il farmaco, ma non produce più l’acido acetilsalicilico, limitandosi ad acquistarlo dalla francese Rhone Poulenc e poi a comprimerlo in pillole o pasticche.
La storia del Bayer 04 è parallela: venne infatti fondato dall’azienda nel 1904 come polisportiva per i suoi dipendenti. Ma per oltre un secolo il Bayer 04 è stato sinonimo di straziante sconfitta. Il suo palmares vanta infatti due soli successi: una Coppa Uefa nel 1988 e una Coppa di Germania nel 1993. Per il resto mai una gioia e cinque secondi posti in Bundesliga, al punto da meritarsi il nomignolo di “Neverkusen” (o Vizekusen nella versione tedesca) nel maggio 2002, quando in meno di venti giorni perse sul filo di lana la Bundesliga, dopo averla dominata per l’intera stagione (c’è bisogno di dirlo? Vinse il Bayern) e fu sconfitto nelle finali di Champions League dal Real Madrid e di Coppa di Germania dallo Schalke 04. Ecco perché l’incredibile stagione che sta per concludersi sotto la guida del coach spagnolo è come un esorcismo, una catarsi liberatoria, il cui significato va ben oltre Leverkusen e parla all’intero popolo del calcio in Germania: c’è una vita oltre l’insopportabile dominazione del Bayern Monaco.
In realtà azienda, comune e squadra di calcio sono una cosa sola: generazione dopo generazione, decine di migliaia di persone hanno trovato lavoro nella città della Bayer, vivevano nelle case costruite dalla Bayer, facevano la spesa nei supermercati della Bayer, praticavano lo sport nel centro sportivo aziendale, leggevano libri nella biblioteca dedicata al fondatore, passavano il loro tempo libero nel centro ricreativo Bayer con tanto di sala da concerti, cinema, palestra e piscina.
“Guardate a questa città”, dice il borgomastro cercando di sfruttare il bonus di notorietà internazionale e simpatia che deriva dai successi del Bayer 04. Richrath sogna un rilancio di Leverkusen come luogo d’investimento ideale: manodopera qualificata, capacità d’integrazione dimostrata dalla pacifica convivenza nelle sue 13 circoscrizioni di persone provenienti da 140 nazioni. Il calcio come volano e traino dello sviluppo. Nulla sembra frenare il sindaco, neppure la crisi profonda di Mamma Bayer, che tutti conoscono nei dettagli ma di cui pochi hanno voglia di parlare.
C’è una data che ormai i cittadini di Leverkusen conoscono a memoria, anche se non sono esperti di finanza e acquisizioni: il 23 maggio 2016. Quel giorno, la Bayer Ag annunciò l’acquisto di Monsanto, gigante americano dell’agrochimica. Costo dell’operazione: 55,5 miliardi di dollari, una delle acquisizioni più costose della storia del capitalismo. Monsanto produceva biotecnologie, sementi transgeniche e convenzionali, pesticidi. Nella visione dell’allora presidente e amministratore del gruppo, Werner Baumann, l’investimento doveva fare di Bayer Ag la leader mondiale dell’agrochimica, facendola uscire dallo steccato tradizionale della farmaceutica.
E’ andata molto diversamente. Già allora, infatti, Monsanto incarnava il modello di un’agricoltura intensiva e nemica dell’ambiente. Ma non è stata solo una questione d’immagine. Quasi 170 mila persone negli Stati Uniti hanno da allora intentato cause singole o class action contro Bayer Ag, per la produzione del glifosato, l’erbicida introdotto in agricoltura negli anni Settanta proprio dalla Monsanto, che secondo molti studi scientifici è cancerogeno, danneggia il sistema nervoso e può essere anche correlato a malattie come il Parkinson.
L’azienda si è difesa, pagando parcelle milionarie a squadre di avvocati, secondo i quali il prodotto è sicuro e nulla di certo lo lega ai tumori o alle malattie nervose. E sarà anche così, ma è un fatto che negli ultimi dieci anni Bayer ha perso una causa dopo l’altra ed è stata costretta a pagare indennizzi per miliardi di dollari. Lo scorso gennaio, per citare il caso più recente, un tribunale civile della Pennsylvania ha condannato la multinazionale tedesca a pagare 2,2 miliardi di dollari a un uomo, malato del linfoma non-Hodgkin, che sosteneva di aver contratto il cancro a causa dell’uso del Roundup, il popolare diserbante della Monsanto, basato sul principio attivo del glifosato.
Sono soldi che pesano sui bilanci di Bayer Ag, costretta a tagliare un po’ ovunque i suoi piani di spesa. Ad esempio, nella farmaceutica, dove il successo di un’azienda è legato alla ricerca e sviluppo di nuovi farmaci, che poi una volta brevettati le garantiscono lunghi anni di diritti di produzione esclusivi fino alla scadenza del brevetto. Da anni Bayer Ag è in ritardo, vede sempre più brevetti scadere, ma non ha nuovi prodotti da lanciare: in Germania la chiamano Patentkippe, il precipizio del brevetto. Mentre crescono tradizionali concorrenti, come Boehringer, che nel 2023 ha per la prima volta superato in volume d’affari il gruppo di Leverkusen nel comparto farmaceutico.
A cercare di venire a capo di una deriva che sembra sempre più inarrestabile, dal 2023 è stato chiamato Bill Anderson, 57 anni, americano del Texas che aveva in precedenza guidato la divisione farmaceutica di Roche. Bayer Ag, ama ripetere il nuovo Ceo, “è sostanzialmente sana”, ma si porta dietro più 34 miliardi di euro di debito netto. Al momento verifica diverse opzioni, come la futura separazione della holding in tre parti autonome: agrochimica, farmaceutica e un’altra che si occuperebbe esclusivamente di prodotti da banco come l’aspirina. Ma prima, Anderson deve affrontare un problema più immediato: Bayer Ag ha troppi manager, circa 17 mila su un totale di oltre 100 mila dipendenti. “Tra me e i nostri clienti ci sono dodici livelli”, dice scandalizzato.
Incaricata di snellire la struttura è una donna, Heike Prinz, proveniente da una delle aziende consociate, la Schering, società farmaceutica già celebre prima di essere acquisita da Bayer Ag nel 2006, per aver lanciato la prima pillola anticoncezionale in Europa. Prinz lavora a un nuovo modello di organizzazione chiamato Dynamic Shared Ownership, in base al quale i dipendenti verrebbero divisi in squadre, ognuna delle quali si occupa di un solo prodotto o in alcuni casi di un solo cliente, come se fossero tante piccole aziende. Dovrebbe portare a una riduzione del 40 per cento dei posti di management e a partire dal 2026 a una riduzione dei costi di 2 miliardi di euro l’anno. Ma è un modello controverso, che non trova d’accordo tutti i maggiori azionisti, come i fondi di investimento delle Sparkasse, le casse di risparmio. Finora, gli strumenti per ridurre il personale sono stati prepensionamenti volontari e generose offerte di uscita. Ma non basta per conseguire l’obiettivo indicato di un taglio di 12 mila posti di lavoro. Il problema è che nessuno oggi può dire se basterà a frenare il crollo.
E allora può tornare utile anche il calcio e il Bayer 04. Dopotutto è pur sempre il “Werkself”, la squadra della fabbrica, no? E non è solo o tanto il valore aggiunto, che i successi del club portano alla multinazionale, valutato secondo alcune simulazioni intorno ai 500 milioni di euro. Quanto una questione di “animal spirits”, un’euforia collettiva che trasmette entusiasmo e valori come spirito di squadra, coraggio, sacrificio e dedizione. Anderson ne è convinto al punto che sui social network ha ordinato di cambiare il logo della Bayer Ag con quello del Bayer 04, dove il cerchio con il nome incrociato è sorretto da due leoni rossi.
Nel recente viaggio in Cina di Olaf Scholz, il ceo texano faceva parte della delegazione di grandi manager di aziende tedesche che lo accompagnavano: si è presentato sull’aereo del cancelliere con una maglietta del Bayer 04 con il numero 10 e il nome di Scholz. Le vittorie delle “aspirine” (sì, vengono chiamati anche così i giocatori del Bayer 04) contageranno l’azienda, aiutandola a superare la crisi? O serviranno solo a mettere sulla carta geografica Leverkusen, la città che non c’è, portando un po’ di turismo sportivo nella stagione della prossima Champions League? Il borgomastro Richrath ci scommette: “Prima non ci vedevano neppure, alcuni stranieri si chiedevano perfino se qui vivessero delle persone. Ora ci guardano e ci conoscono”. Prodigi del pallone. Ma per i miracoli bisognerà aspettare.