Oltre l'inchiesta

Le mani sul porto di Genova

Stefano Cingolani

Si gioca la partita per trasformare lo scalo marittimo più grande d’Europa. In modo scorretto, secondo la magistratura. Occhi puntati sulla diga foranea, il progetto più costoso del Pnrr: un miliardo e 300 milioni

Il fronte del porto è lungo 22 chilometri, si estende per 500 ettari su terra ferma e altrettanti sulla superficie marina, con 25 terminal ai quali attraccano i giganti del mare. Aride cifre che nascondono secoli di storia, di successi e sconfitte, di ambizioni mai dome. Genova non ha mai cessato di sentirsi la gran dama del Mediterraneo, a differenza di Venezia che, ceduta da Napoleone agli austriaci, ha relegato il suo rapporto col mare al folklore o alla continua battaglia contro i capricci della laguna. Si dice che il porto sia Genova e Genova sia il suo porto. Non è proprio così, ma il loro è sempre stato un destino comune. Le foto aeree mostrano un grande semicerchio sul quale s’affaccia la città abbarbicata alle colline. Lo scalo marittimo resta il più grande d’Italia anche se Trieste è il numero uno per quantità di merci. Entrambi sono schiacciati come in una morsa. Lo stivale che s’allunga dalle Alpi allo zoccolo africano, il paese con 8.300 chilometri di coste, è pressato a oriente dalla Grecia, a occidente dalla Spagna, a sud da Egitto e Marocco: il Pireo e Salonicco, Porto Said e Tangeri, Algeciras e Valencia hanno preso il sopravvento. Negli ultimi anni è cominciata una rimonta, ma l’aggancio (o, perché no, il sorpasso) dipende in gran parte da quel che accadrà proprio a Genova che cerca spazio strappandolo al mare, mentre Trieste ha già investito con successo nella logistica. Non basta certo scaricare i container sulla banchina, occorre trasferirli sui treni e sui camion, perché tra la rotta via mare e quella via terra non ci sia interruzione. Ciò vale in fondo anche per i passeggeri: una volta sbarcati, debbono trovare pullman, treni, auto. Il sistema mercantile e quello turistico ormai si assomigliano sempre più. Trieste si propone come sbocco per l’Europa centro-orientale, Genova vuole diventare la porta che dal Mediterraneo si apre verso il Northern Range, un unico tracciato portuale tra Le Havre, Anversa, Rotterdam, Amburgo, dalla Francia alla Germania. Il progetto passa per alcune infrastrutture fondamentali: la Gronda, la nuova autostrada quasi tutta in galleria, le ferrovie ad alta velocità, la grande diga foranea più lontana dalla costa rispetto a quella attuale, fatta apposta per le grandi navi, il tunnel sottomarino, ma soprattutto la trasformazione del porto oggi frastagliato, diviso tra interessi privati e pubblici, economici e politici, in un organismo integrato. E’ questa la partita complessa e rischiosa che si sta giocando, in modo scorretto secondo la magistratura. Prima di giudicare, tuttavia, bisogna capire togliendosi almeno per un momento il manto del giudice o del grande inquisitore. Proviamo.

Pesantemente colpito dalla Seconda guerra mondiale, il porto di Genova non ha più recuperato i passati splendori anche se ha accompagnato la ricostruzione ed è rifiorito con il miracolo economico. Poi sono arrivati gli anni bui con il piombo delle Brigate rosse che proprio a Genova avevano una delle colonne più dure e sanguinarie. Si sono sfaldati gli equilibri economici e sociali sui quali si era retta la città: grande industria pesante in mano allo stato (Italsider e Ansaldo), porto in mano al rapporto consociativo tra il comune e la confraternita degli scaricatori, i camalli della Compagnia dei Caravana che poi diventerà Compagnia unica del porto dal 1946 fino ad oggi. Il nome è arabo, però i facchini per almeno cinque secoli erano stati bergamaschi. Camallu (in genovese) proviene da hammal (portatore) così come rebellö, il carretto a due ruote che serviva per il trasporto. Gli statuti con i quali il comune dava ai soci della corporazione il diritto esclusivo del carico e dello scarico delle merci alla dogana genovese. Un privilegio e un potere davvero duro o forse impossibile a morire. Per evitare che fosse eccessivo le autorità locali decisero che i lavoratori dovevano essere non solo giovani e forti, ma foresti, e si rivolsero alle valli bergamasche popolate di gente povera e senza lavoro: “Mani grandi et anco gambi forti, per niuna ragione sentir la fatica ammesso”. Divennero facchini, cassai, barilai, imballatori, pesatori, calafati, puntellatori, demolitori, carpentieri, carenanti, ormeggiatori, manovratori, barcaiuoli, inquadrati in numerose compagnie guidate da consoli e viceconsoli. La Caravana, la più antica e potente, esibiva un gonnellino azzurro come fosse una bandiera, il suo statuto vietava l’uso delle armi, la bestemmia, il gioco dei dadi (solo a Natale e Pasqua) mentre le carte erano consentite la domenica. Bandite le mance e ogni regalia al di fuori del salario. Nasce una mitologia che s’innerva di battaglie storiche, l’ultima memorabile è quella del 1960 contro il governo Tambroni monocolore colore Dc appoggiato dal Movimento sociale. Oggi sono un ricordo, anzi un’applicazione: Camall’App. Ma in dialetto genovese camallare vuol dire ancora trasportare.

La rivoluzione dei container è un colpo durissimo e avvia la metamorfosi del porto. Genova si muove per prima in Europa già nel 1969, anche se in punta di piedi. In un decennio cambia l’intera organizzazione, compresa quella del lavoro. Si riducono, ma non cessano, i privilegi della Compagnia difesi con lotte durissime che finiscono per avere una ricaduta sull’intera attività. Ancora per lungo tempo venivano legate a mano balle di iuta e di cotone scaricate dalle navi, piogge di granaglie cadevano nei vagoni e venivano incanalati nei silos, montagne di sale nei magazzini. Finché non arriva il primo interporto nell’entroterra, vicino a Tortona, e comincia ad affermarsi l’intermodalità (nave, treno, camion, aereo) parola diventata magica nel mondo dei trasporti. Negli anni 90 Genova s’avvicina con 50 milioni di tonnellate di merci al record degli anni 70 (62 milioni), grazie alla globalizzazione. In una prima fase il Mediterraneo sembra emarginato, poi emergono nuovi concorrenti: si pensi alla posizione strategica di Algeciras a cavallo delle colonne d’Ercole, quindi giuntura con l’Oceano Atlantico; alla rinascita del Pireo passato in mani cinesi nel 2009 quando la Grecia stava per fallire; a porto Said all’imbocco del canale di Suez tornato a essere passaggio obbligato nelle rotte che dall’estremo oriente, a cominciare dalla Cina, portano in Europa. 

Tutto ciò ha lanciato nuove sfide che hanno messo in difficoltà l’Italia perché i porti nazionali non sono mai stati un sistema: divisi, in competizione tra loro, nello stesso tempo troppo numerosi e troppo deboli, un vero compendio di localismo e interessi particolari. L’Italia non è solo il paese dei campanili, ma anche quello degli scali marittimi: se si escludono i piccoli attracchi ce ne sono 58 tra merci e passeggeri, gestiti da 16 diverse autorità, enti pubblici non economici. Regista delle attività e arbitro degli interessi, il presidente è di nomina politica, quindi risponde in ultima istanza al partito che governa comune e regione così come al ministro dei Trasporti o al presidente del Consiglio. Un meccanismo complesso in cui tutti i pezzi debbono funzionare al pari di un orologio, ma spesso le rotelle si dimostrano fragili come vasi di porcellana.

“I porti italiani non sono ancora competitivi sul piano dell’efficienza, della rapidità delle procedure doganali e di controllo, dei costi di trasporto, sui tempi di consegna (secondo il Global Competitiveness Index l’Italia risulta al 49° posto)”, sostiene Rosario Pavia, dell’Università di Pescara in un’analisi per l’Ispi su politica e geopolitica dei porti italiani. Gli handicap da superare sono davvero molti: bassi fondali, accosti insufficienti per le nuove dimensioni delle navi, insufficienti spazi per la movimentazione e lo stoccaggio dei contenitori, inadeguata accessibilità marittima, connessioni tra porti, autostrade e ferrovie, soprattutto i collegamenti con i corridoi dei trasporti che dopo il trattato di Maastricht del 1992 hanno plasmato l’intera rete europea. A tutto questo si aggiunge la scarsa qualità ambientale delle aree. I green port sono uno degli obiettivi del Recovery plan. Se prendiamo il trasporto dei container via treno, solo pochi attracchi hanno quote significative. Secondo uno studio dell’Isfort del 2019 Trieste e La Spezia, con circa il 30 per cento, raggiungono livelli di rilievo; seguono, con quote minori, Genova e Livorno. Per realizzare con efficienza il trasferimento su treno dei contenitori occorrono piazzali di grandi dimensioni in grado di consentire la formazione di convogli almeno di 600-750 metri (ma l’orientamento internazionale è utilizzare convogli ancora più lunghi). A navi giganti si accompagnano porti giganti. Il trasbordo da un bastimento all’altro (trans-shipment il termine inglese utilizzato) una sorta di staffetta per raggiungere destinazioni diverse, era stato nelle mani delle autorità portuali a Gioia Tauro, Taranto e Cagliari. Gli ultimi due sono in crisi da tempo, lo scalo calabrese è stato rilanciato dopo l’ingresso della Msc, la Mediterranean shipping company, la compagnia svizzera di Gianluigi Aponte. Negli ultimi dieci anni, intanto, si sono fatti spazio Genova e La Spezia, ma soprattutto Trieste dove il trasbordo incide per il 40 per cento. 

Genova si trova nel bel mezzo della propria transizione. Colpita dal crollo del ponte Morandi ha dato prova di una notevole forza di reazione, si è parlato di modello Genova, portandolo a esempio nazionale. Un grande flusso di denaro, investimenti pubblici italiani ed europei con il Pnrr (per la nuova diga foranea), le autostrade, le ferrovie. L’autorità di sistema portuale del Mar ligure occidentale gestisce tra Genova, Pra’, Savona e Vado Ligure uno tra i maggiori sistemi portuali italiani, per quantità di traffico totale (oltre 69 milioni di tonnellate di merce e 4,2 milioni di passeggeri movimentati annualmente), numero di collegamenti marittimi (oltre 150 linee verso 500 porti in tutto il mondo), servizi complementari offerti (logistica, riparazioni, costruzioni navali). Oggi alla guida c’è un commissario straordinario, Paolo Piacenza, nominato dal ministro delle Infrastrutture, Matteo Salvini, da quando nel settembre scorso si è dimesso Paolo Emilio Signorini rimasto in carica per otto anni, due mandati. Anche Piacenza risulta indagato per abuso d’ufficio. “No a un nuovo commissariamento”, aveva tuonato il Pd genovese, invece le autorità locali e i partiti del centrodestra non si sono messi d’accordo. L’inchiesta giudiziaria, poi, intorbidisce ancor più le acque. Sui trenta cantieri aperti cala una nube tempestosa, perché non solo il sindaco di Genova Marco Bucci, ma il presidente della regione Giovanni Toti hanno un ruolo decisivo. E la sorte di Toti è nelle mani dei magistrati. 

Oltre agli imprenditori locali come Aldo Spinelli oggi nel mirino giudiziario, è sceso in campo un vero colosso della logistica: Msc. L’acquisto del Secolo XIX ha acceso ancor più i riflettori sul Comandante Aponte che dal Golfo di Napoli è diventato l’uomo più ricco della Svizzera e il numero due al mondo nei cargo in rotta per i sette mari. In Italia, i porti da Genova a Gioia Tauro, i trasporti da Italo alle merci, gli aerei, i traghetti, ora i giornali e tutto il resto. Aponte non è coinvolto nell’inchiesta giudiziaria per corruzione che in questo articolo sfioriamo soltanto, ma l’impressione è che il suo arrivo abbia rotto “il patto della Lanterna”. Msc gestisce già integralmente il terminal chiamato Bettolo, nel primo grande piazzale. Il secondo è il terminal noto come Rinfuse così chiamato dalle merci trasportate direttamente nella stiva delle navi, possono essere liquide come il petrolio, gli oli e i prodotti chimici oppure solide come il carbone o i cereali. E’ stato assegnato nel 2021 per trent’anni, dieci in meno rispetto a quanto richiesto, a una società composta per il 55 per cento dal gruppo Spinelli e il resto da Msc. Ma tra i due non corre buon sangue. Accanto al Rinfuse c’è il piazzale noto come ex Carbonile. Su questo nell’agosto scorso scoppia una furiosa lite tra Spinelli e Aponte il quale chiama Signorini, ancora presidente dell’autorità, e va su tutte le furie: “Vengo a sapere che la sua organizzazione ha deciso di dare ulteriori 14 mila metri quadrati a Spinelli, gliene ha già dati 30 mila e insomma se gli volete dare tutto il porto. E noi stiamo a guardare. La cosa comincia a diventare un po’ indecente, questo è ladrocinio, è veramente mafia, sono dei corrotti che hanno dato sempre tutto a Spinelli”, il quale tra l’altro gestisce per conto proprio il Genoa Port, il più importante per le attività del gruppo. Insomma, ’cca nisciuno è fesso. Un passaggio fondamentale doveva essere il tombamento della calata chiamata Concenter, cioè il riempimento dello spazio di mare tra le banchine del terminal Rinfuse e dell’ex Carbonile, entrato nel piano straordinario di interventi concessi in deroga. Fino ad allora la copertura era stata vietata, perché modificava in modo sostanziale il paesaggio. Spinelli insomma voleva unire tutti gli spazi ottenuti in concessione e realizzare così un’unica grande area sotto il suo controllo, per questo occorreva il via libera della politica, ma il gioco ormai è diventato troppo grande.

Potenziare il porto non è possibile se non si realizza un progetto davvero strategico: la nuova diga foranea, una delle opere pubbliche più costose approvate negli ultimi anni. Inserita nel 2019 nel Pnrr con uno stanziamento di 700 milioni di euro, il costo viene stimato adesso in un miliardo e 300  milioni, cioè quasi il doppio. Lunga oltre sei chilometri, distante 800 metri dalla costa, grazie a lei le navi porta-container potranno entrare e ruotare su se stesse. L’appalto è stato aggiudicato a fine 2022 (governo Draghi, ministro Enrico Giovannini) da Webuild insieme con Fincantieri più un consorzio di imprese e fin dall’inizio in molti si sono messi di traverso. Sospendiamo ogni giudizio, ma la “Genova connection” lascia capire che i grandi progetti nazionali, l’arrivo di colossi internazionali, l’occhio di Bruxelles sui soldi europei, hanno infranto il vecchio “complesso politico-industriale” che ha guidato la città. Comunque vada a finire l’offensiva giudiziaria, il fronte del porto non sarà più come prima.

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