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Le cattedratiche: tutte le donne di Milton Friedman
Dalla moglie Rose alla coautrice Anna Schwartz, chi sono le brillanti protagoniste del pensiero economico liberale
I due siedono l’uno di fianco all’altra. Il corso è il più temuto: Economics 301. Si tratta di lezioni in cui è e sarà tradizione, per il docente, non perdonare nulla: guai ad abbassare la guardia. In cattedra c’è Jacob Viner, studioso di economia internazionale, “piccolo e intenso, come un gallo da combattimento”. All’esame, di solito boccia un terzo dei candidati. E’ in questo clima da Ufficiale e gentiluomo delle scienze sociali che Milton Friedman scambia i primi sguardi con Rose Director. Non è il solo a puntarla. In tutta l’aula, è l’unica fanciulla. Viner sta scrivendo alla lavagna, Milton nota che ha sbagliato a differenziare un’equazione. Glielo fa presente. Il professore minimizza e tira dritto. Si è segnato, però, il nome di quel tipo. Lo stesso ha fatto Rose. Il primo appuntamento sarà a un seminario, poi verrà una storia a distanza, infine il matrimonio, due figli (Janet e David) e, dopo la pensione, una vita da girovaghi dell’economia. Milton Friedman ha fatto conferenze ovunque nel mondo. Spesso era con lui anche la moglie Rose. L’autobiografia di Friedman è una autobiografia di coppia, scritta a quattro mani, Two Lucky People (1998). Che fra i due ci fosse complicità intellettuale era noto. Ma fino a oggi forse non era chiara la profondità del debito di Milton nei confronti di Rose.
Milton Friedman: The Last Conservative (New York, Farrar, Straus and Giroux, 2023, pp. 592) è il primo libro ad ampio raggio sull’economista di Chicago (in Italia Antonio Martino pubblicò nel 1994 un ritratto intellettuale di Friedman, ristampato nel 2005). L’autrice, Jennifer Burns, insegna a Stanford, dove ha potuto immergersi negli archivi di Friedman (non però nella corrispondenza fra Milton e Rose, distrutta da quest’ultima) per anni, per uscirne con un libro che è una delle più belle biografie di un economista che siano mai state scritte. “Molti aspetti del mondo contemporaneo che oggi sembrano comuni hanno origine da una delle idee all’epoca ritenute folli di Friedman. Se vi trattengono le tasse dalla busta paga, se vi è capitato di programmare o rimandare una vacanza all’estero a causa del tasso di cambio, se avete considerato la possibilità di una carriera nell’esercito come una professione, se vi siete mai chiesti se la Federal Reserve sa davvero quello che fa, se avete lavorato in una scuola privata o ci avete iscritto vostro figlio o avete mai discusso dei pro e dei contro del reddito di base universale, avete avuto a che fare con Friedman”.
Dalla sua morte, nel 1947, John Maynard Keynes è, per parafrasarne una citazione famosa, l’“economista defunto” che tiranneggia “gli uomini pratici, i quali si ritengono liberi da ogni influenza intellettuale”. Milton Friedman è l’unico che ne abbia davvero sfidato l’ombra, destinata a stagliarsi sin sui nostri anni. Come Keynes, egli fu un teorico di prima grandezza – ma si sporcò le mani anche come “tecnico” a disposizione della politica (con Nixon e Reagan). E più di Keynes, Friedman seppe parlare a un pubblico che andava ben oltre la cerchia degli specialisti. Se Keynes volle lasciare il segno fra le classi colte, Friedman riuscì a essere un economista per tutti. Rose Director fu, in quest’ultimo sforzo, cruciale. Come, in altri ambiti, lo fu l’aiuto di altre donne: Dorothy Brady, Margaret Reid e Anna J. Schwartz. Studiose che non hanno avuto i riconoscimenti che meritavano. I grandi libri divulgativi di Friedman – Capitalismo e libertà (1962) e Liberi di scegliere (1980), ma anche La tirannia dello status quo(1984) – sono di Milton e di Rose. Cominciano a scrivere assieme quando i figli sono cresciuti. Non lo fanno per ammazzare il tempo e nemmeno lo programmano, accade un po’ per caso.
Il fratello maggiore di Rose, Aaron Director, anch’egli economista, insegnava lui pure a Chicago. Era diventato professore grazie anche al sostegno del Volker Fund, una fondazione che nel dopoguerra ha sostenuto molte iniziative (e altrettanti libri) libertarie e conservatrici. Al Volker Fund, Director era stato raccomandato nientemeno che da Friedrich von Hayek, l’economista austriaco che, con Friedman, assume la leadership intellettuale degli ultimi giapponesi liberisti, in epoca keynesiana. Durante la guerra, quando Hayek cerca un editore americano per quello che sarà il suo libro più famoso, La via della schiavitù, è Director che si fa in quattro, propiziandone il successo. La fama conquistata al di fuori dell’accademia un poco infastidiva Hayek, il quale tuttavia cerca di avvantaggiarsene per il suo nuovo progetto: un’associazione internazionale di studiosi liberali, la Mont Pelerin Society. I finanziatori americani lo aiutano, ma avrebbero preferito che Hayek scrivesse invece una versione americana de La via della schiavitù: la critica definitiva al New Deal rooseveltiano. L’economista austriaco ritiene l’impresa troppo importante per lasciarla a un autore, lui stesso, che dell’America sa tanto poco e consiglia di incaricarne Director. Questi, grazie al supporto del Volker Fund, raduna a Chicago un formidabile gruppo di studiosi, dando vita a una nuova disciplina, l’“analisi economica del diritto”. Ma, della “Via della schiavitù americana”, Director non pubblica mai un rigo. Rose avverte in qualche modo il debito del fratello e forse proprio per quella ragione (sostiene Burns) si mette a lavorare su alcune conferenze che Milton aveva tenuto al Wabash College in Indiana durante una summer school. L’idea è restituire ai finanziatori di ieri, e ai lettori di domani, quel libro che non era mai stato scritto. Rose “cucì assieme i pezzi delle diverse lezioni, collazionò le diverse versioni, tradusse le conferenze in qualcosa di più vicino all’inglese scritto”. Esempi semplici ed efficaci, frasi brevi, capacità di rendere concrete le questioni all’apparenza più astruse. Friedman ha trovato la sua voce, che presto diviene inconfondibile: quell’inglese terso e pulito che ne fa uno dei grandi intellettuali pubblici del secolo. Grazie alla moglie, il cui nome, in Capitalismo e libertà, appare nel frontespizio ma non in copertina.
L’apporto di Rose non si limita allo stile. A differenza del marito, che era un mattatore, la signora Friedman era timida e riservata. Ciò non significa che fosse meno portata per gli studi: da dottoranda aveva ottenuto, al pari di lui, una Social Science Research Council Fellowship. Con la collega Dorothy Brady, Rose scrive un paper su “Savings and the Income Distribution”. La tesi è che le famiglie non spendono in proporzione al loro reddito “assoluto” ma a quello “relativo”: due famiglie che abbiano lo stesso reddito monetario, in luoghi diversi, non necessariamente mostrano le stesse abitudini di consumo e di risparmio. Ma considerando invece, per esempio, “due famiglie entrambe nel ventesimo percentile di reddito, se confrontate con i loro vicini, era probabile spendessero proporzioni simili dei propri redditi”. Il contributo fu elogiato anche da avversari “ideologici”, come James Tobin. Il reddito corrente risulta assai meno importante nel determinare la propensione al consumo di quanto si pensasse sino ad allora: è una crepa nell’edificio keynesiano. Dorothy Brady insegnava alla Wharton. Tornò sovente su quelle questioni, come anche Margaret Reid, che insegnava all’Iowa State College e poi a Chicago. Le loro ricerche aiutano Friedman a mettere a punto l’ipotesi del reddito permanente. La volatilità dei redditi è superiore a quella dei consumi: le persone orientano questi ultimi sulle loro aspettative circa il reddito che godranno nel lungo periodo, non reagiscono necessariamente a premi (o bonus…) che immaginano transitori. Secondo Burns, “Reid aveva capito che il suo lavoro sarebbe andato più lontano, se si fosse basato su una teoria sviluppata da un noto economista di sesso maschile”. Nell’introduzione a A Theory of the Consumption Function Friedman parla del “prodotto comune di un gruppo”, in cui la sua mano si era limitata a reggere la penna. Il futuro Premio Nobel lavora con queste studiose, attinge alle loro ricerche e prova a sostenerne la carriera. Lo farà anche, appena si presenterà l’occasione, con la sua collaboratrice più nota.
Anna Schwartz è la coautrice della Storia monetaria degli Stati Uniti. Sulla copertina del librone (1094 pagine nell’edizione italiana IBL Libri, 2022), i nomi ci sono entrambi. Ma siccome è stato Friedman a vincere il Premio Nobel per l’economia, solo gli economisti monetari non pensano che Schwartz ne fosse una specie di assistente o poco più. Acqua. Nel 1948, il giovane Milton si convince che deve studiare il ruolo della moneta nei cicli economici. L’idea, però, ha bisogno di qualche anno per concretizzarsi. A Friedman viene provvidenzialmente presentata Anna Schwartz. Dovrebbe aiutarlo nelle ricerche sul tema. Fa molto di più. L’interesse di Friedman per le questioni monetarie non ha, da principio, una direzione chiara. E’ Schwartz a preparargli una dieta rigorosa a base di classici, per assorbire la “teoria quantitativa della moneta” (per cui le variazioni nella quantità di moneta influenzano i prezzi nominali: se raddoppiasse nottetempo la massa monetaria, non ci arricchiremmo ma cominceremmo a pagare per beni e servizi il doppio di prima). Rimettere la teoria quantitativa della moneta al centro del dibattito è ciò che ha reso famosi Friedman e il suo “monetarismo”. E’ Anna a spiegare a Milton che la moneta è il prisma ideale per leggere la storia economica del paese. Quando si mettono a lavorare assieme, l’una a New York e l’altro a Chicago, non ci sono email o fax e le interurbane costano una cifra proibitiva. E’ sempre Anna, allora, a condensare in lettere lunghissime questioni teoriche vaste e meticolose ricerche d’archivio. A lei si debbono le serie statistiche dettagliate della quantità di moneta negli Stati Uniti a partire dalla guerra civile: un lavoro di ricerca immenso, che lascia a bocca aperta i lettori del loro libro, rendendo impossibile ignorarlo. Non quanto oggi, in cui la consideriamo il deus ex machina dell’economia mondiale, ma già negli anni Cinquanta la Federal Reserve è vista come un’istituzione senza macchia e senza paura. Una conoscenza maniacale della teoria e della storia monetaria fa di Schwartz una scettica sui continui miracoli degli istituti d’emissione. Contagia anche il suo coautore. La Storia monetaria offre una spiegazione della grande depressione diversa da quella allora prevalente. Sono stati gli errori della Fed a rendere più drammatica la correzione di mercato. E’ col modo in cui si traffica con la moneta, più che in pretese caratteristiche “intrinseche” del sistema capitalistico, che possiamo spiegare i saliscendi del ciclo economico.
Jennifer Burns si guarda bene dal minimizzare l’apporto di Friedman, di cui anzi ricorda la brillantezza, la versatilità argomentativa, le infinite e formidabili capacità. Ma sottolinea pure come il lavoro con Brady/Reid e quello con Schwartz sia risultato fondamentale, per mettere a punto quella visione compiuta della società e dell’economia che emerge dai lavori del Friedman “divulgativo”, cucinati da Rose. Da giovane Friedman non era stato “di sinistra” ma aveva comunque aderito all’idea che l’economia di mercato producesse diseguaglianze e fosse indecentemente instabile. Rose aveva idee diverse sulla situazione dei più poveri in un’economia capitalista: che è, storicamente, molto migliore di qualsiasi alternativa. L’ipotesi del reddito permanente e il lavoro empirico che vi soggiace convincono Milton che la società capitalistica crea meno diseguaglianze di quanto appaia e che storicamente ha prodotto livelli di vita superiori a qualsiasi altra. Scrivere la Storia monetaria gomito a gomito con Schwartz lo induce a trovare nella politica monetaria la vera fonte delle oscillazioni e delle crisi periodicamente attribuite all’economia di mercato. Ciò a sua volta lo condurrà a porre il problema della politica monetaria come alternativa fra “regole” e “discrezionalità”: i banchieri centrali vorrebbero la seconda, per risolvere i problemi del momento. Ma solo le regole (per esempio limitare la creazione di moneta attraverso un obiettivo d’inflazione, come fa la Bce) possono creare certezza, dando fiducia agli operatori economici. Friedman fa dell’idea di sottoporre a norme precise l’operato delle banche centrali la battaglia della vita.
Il capitalismo non va salvato dai capitalisti, ma da chi vorrebbe salvarlo o redimerlo manipolando con le migliori intenzioni l’andamento dei prezzi. Nel corso degli anni, Friedman proporrà politiche le più diverse ma tutte volte a “liberare i prezzi”: che si tratti di istruzione (è l’inventore del buono-scuola), lavoro (attacca il monopolio dei sindacati e la leva obbligatoria) o di moneta (vuole abolire controlli valutari e cambi fissi). Da prezzi liberi di aggiustarsi la società ha più da guadagnare che da perdere. E’ una buona sintesi del friedmanismo, nel senso di Milton ma anche, e forse soprattutto, di Rose.