Enrico Letta - foto via Getty Images

Muoversi da giganti

Il rapporto sul mercato unico europeo di Letta contiene troppi slogan, ma indica una direzione

Salvatore Rossi

Il documento stilato dall'ex premier non contiene molte indicazioni operative, ma è il segno che qualcosa si sta muovendo. La necessità di abbracciare nuove forme di unione economica e politica per affrontare le pressioni globali e garantire all'Ue una posizione competitiva

Il Rapporto coordinato da Enrico Letta sul mercato unico europeo, voluto dalla Commissione uscente, pubblicato un mese fa, offre spunti utili per ragionare sulla campagna elettorale di oggi e sull’Europa di domani. Poniamoci subito una domanda apparentemente banale: che cos’è il mercato unico europeo? Non è una domanda peregrina, di tutte le espressioni coniate con riferimento all’Europa da ottant’anni a questa parte “mercato unico europeo” è la più distante dal comune sentire dei cittadini di tutto il continente, compresa solo (forse) dagli addetti ai lavori.
 

Mercato comune, espressione usata per decenni, più o meno si capiva, unione monetaria pure, perfino unione bancaria, ma mercato “unico” (single, in inglese) in che cosa, ad esempio, va distinto da quello “comune” (common) precedentemente in vigore? Cerco di spiegarlo con un po’ di storia. Il progetto d’integrazione europea come oggi lo conosciamo nasce quando la Seconda guerra mondiale non è ancora terminata, e nasce come disegno politico utopico di una unione irreversibile di Francia e Germania, perché i due paesi cessino di sbranarsi vicendevolmente come vanno facendo da quasi un secolo. Finita la guerra, attorno ai due attori principali si stringono subito l’Italia e i tre paesi nordici del cosiddetto Benelux (Belgio, Olanda e Lussemburgo), ciò che consente meglio di definire il progetto come europeo. La natura squisitamente politica e federativa del disegno appare chiara allorché si mette mano, nei primi anni Cinquanta del secolo scorso, a un embrione di esercito europeo. Il tentativo viene fatto abortire da una Francia che non si sente pronta a scambiare armi con chi le aveva imbracciate fino a pochi anni prima per occuparla e sottometterla. Lo scopo dell’unione politica e militare viene a quel punto sotterrato e i fautori dell’unione spostano il negoziato sul terreno economico. Si agisce da allora alternativamente sulle leve dell’integrazione economica e dell’integrazione monetaria e finanziaria: mercato comune alla fine degli anni Cinquanta, un primo tentativo anch’esso abortito di unione monetaria alla fine dei Sessanta, il mercato unico nei primi anni Novanta, l’unione monetaria con l’euro alla fine dei Novanta. Il mercato unico non è nient’altro che il completamento di quello comune: quest’ultimo aveva avviato l’abbattimento di tutti i dazi commerciali che ostacolavano il commercio fra paesi della comunità, ma restavano molti altri ostacoli “non tariffari”, come ad esempio i subdoli standard tecnici, cioè quelle caratteristiche tecniche imposte da norme nazionali che rendevano una merce, poniamo, italiana vendibile in Germania soltanto con dei costosi adattamenti. Il trattato che istituisce il mercato unico ne dispone l’eliminazione. Di più. Esso stabilisce enfaticamente le quattro libertà fondamentali di movimento nell’Unione: delle persone, delle merci, dei servizi, dei capitali.
 

Ma prevede da subito eccezioni, in particolare per i settori della finanza, dell’energia e delle telecomunicazioni, considerati ancora troppo strategici per essere sottoposti a integrazione sovranazionale. Qualche passo avanti viene compiuto nel primo di quei tre settori. La crisi finanziaria globale del 2007-2008 dà una forte spinta verso l’Unione bancaria, ma al di là della unificazione delle supervisioni pubbliche sotto l’egida della Banca centrale europea non si è visto molto, quello bancario resta tuttora un business prevalentemente nazionale. Lo sforzo di creazione di una unione del mercato dei capitali, iniziato nel 2015, è stato finora ancor più inane. Il Rapporto Letta, significativamente intitolato “Molto di più che un Mercato”, invoca il superamento del mercato unico, considerato figlio di un mondo e di paradigmi teorici superati, e la formazione di una volontà politica forte che possa condurvi. Ne farebbe parte la sostituzione della obsoleta e inefficace unione del mercato dei capitali con una più generale unione del risparmio e degli investimenti. Soprattutto, l’aggiunta di una quinta “libertà” oltre alle quattro già citate, quella di ricerca, innovazione, conoscenza, istruzione. Il Rapporto non è prodigo di indicazioni operative, si limita a sollecitare il Consiglio europeo perché deleghi la nuova Commissione, quella che sarà formata dopo le elezioni del prossimo giugno, a definire una strategia e azioni precise lungo le linee tracciate nel Rapporto. Quindi, a voler essere ipercritici, per il momento sono solo slogan. Ma è il segno che qualcosa si sta muovendo, come sempre quando la costruzione europea deve reagire a grandi traumi esterni. Oggi il trauma è dato dalla improvvisa consapevolezza che nel mondo vi sono giganti economici e politici, come gli Stati Uniti e la Cina, ma anche l’India, che potrebbero relegare noi europei in un destino di subordinazione e declino.
 

Con questo articolo, Salvatore Rossi, economista, ex direttore generale di Bankitalia, inizia la sua collaborazione con il Foglio.

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