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La politica in mutande sui salari

Luciano Capone

L'occupazione va bene, ma l'ottimismo sul lavoro non basta. L’Istat mette nel dito nella piaga, ricorda che solo con la produttività si possono migliorare le retribuzioni e recuperare il gap con gli altri paesi europei

Il rapporto annuale dell’Istat è un’importante mappa, fatta di numeri, per comprendere come sta cambiando il lavoro in Italia e come dovrebbe muoversi la politica. In linea generale, anche se può sembrare un controsenso, l’occupazione sale ma i salari scendono. Sicuramente il trend positivo degli ultimi anni, che attraversa più governi, riguarda l’aumento degli occupati.

Nell’ultimo anno il tasso di occupazione nella fascia 15-64 anni è salito al 61,5 per cento, in aumento di 2,4 punti percentuali rispetto al 2019 (anno prima del Covid). Se si considerano gli ultimi dati disponibili, quelli di marzo 2024, gli occupati sono 23,85 milioni, circa 780 mila in più rispetto a marzo 2019, con un tasso di occupazione complessivo che ha superato il 62%. L’occupazione è migliorata anche a livello qualitativo perché, dice l’Istat, ha riguardato soprattutto i contratti a tempo pieno e indeterminato: “Rispetto al 2019, l’incidenza del lavoro a termine sul totale dei dipendenti (16,1% nel 2023) è in calo di 0,9 punti percentuali”. Anche la quota di occupati part-time, in diminuzione di 1,3 punti, è al 17,6% in linea con la media Ue, sebbene la quota di part-time involontario sia la più alta tra le maggiori economie europee.

Il mercato del lavoro è molto forte: aumentano le ore lavorate e le persone che lavorano. Ma i salari indietreggiano e sono tanti i lavoratori in difficoltà economica, i cosiddetti working poor. Negli ultimi dieci anni (2013-2023) le retribuzioni lorde nominali in Italia sono aumentate appena del 16% (circa la metà della media Ue: 30,8%). Ciò vuol dire che nello stesso periodo le retribuzioni reali sono diminuite, perdendo il 4,5% del potere d’acquisto a fronte di un aumento in Francia (+1,1%), Spagna (+3,2%) e Germania (+5,7%).

Si tratta sicuramente di un andamento stagnante di lungo periodo, che però è stato aggravato dalla forte inflazione degli ultimi due anni non ancora recuperata dai contratti: “Nel 2023, rispetto al 2021, le retribuzioni reali sono diminuite del 6,4% in Italia e del 4,1% in Germania; perdite più contenute si osservano anche in Francia e in Spagna (rispettivamente -1,5 e -1,9%)”, scrive l’Istat. In realtà, il reddito disponibile delle famiglie ha tenuto: la perdita di potere d’acquisto rispetto al 2019 è stata dell’1,5 per cento. E questo perché è stato sostenuto dalle prestazioni sociali che, dopo il forte incremento delle spese straordinarie e temporanee, si sono mantenute su livelli elevati con il potenziamento di misure strutturali (come l’Assegno unico). Nel 2023, il livello delle prestazioni sociali supera i 420 miliardi di euro.

Da questo quadro, che mostra un paese che tutto sommato ha retto, emerge però con chiarezza che questo modello composto da lieve crescita economica, aumento dell’occupazione con retribuzioni contenute e integrazioni economiche da parte dello stato, non è più sostenibile. Basta dare un’occhiata al quadro di finanza pubblica: l’Italia ha nel 2023 il deficit più alto dell’Ue (7,4%), oltre il doppio della media (3,5%).

Per giunta, come mostrano le previsioni di primavera della Commissione europea, l’Italia è anche il paese con il debito pubblico che aumenta più velocemente, tra i pochi paesi europei che non lo vedono diminuire. Per la Commissione il debito pubblico salirà dal 137,3% del 2023 al 141,7% del 2025: +4,4 punti in due anni, quasi il triplo del +1,6 previsto nel Def da Giorgetti e Meloni (debito al 138,9% nel 2025).

Le divergenze con Bruxelles nelle previsioni non riguardano la crescita (+0,9% nel 2024 e +1,1% nel 2025 per la Commissione; +1% nel 2024 e +1,2% nel 2025 per il governo), ma la spesa. Ovvero la politica di bilancio: la Commissione prevede un deficit più alto, perché considera rinnovati gli sconti fiscali temporanei (decontribuzione e Irpef). Con un quadro di finanza pubblica incompatibile con il nuovo Patto di stabilità, ma soprattutto insostenibile per un paese indebitato come l’Italia, vuol dire che non può essere più lo stato a sostenere l’occupazione e i redditi a colpi di deficit. Serve un motore autonomo, che faccia crescere l’economia e i salari mentre lo stato aggiusta i suoi conti.

Come si fa? Con la produttività. Su questo i dati dell’Istat sono molto chiari: negli ultimi due decenni l’Italia ha accumulato un gap con gli altri paesi europei per via di una produttività molto più bassa: “In 15 anni, si è accumulato un divario di crescita di oltre 10 punti con la Spagna, 14 con la Francia e 17 con la Germania. Se si confronta il 2023 con il 2000, il divario è di oltre 20 punti con Francia e Germania, e oltre 30 con la Spagna”. Nel medio termine è solo la produttività che può far crescere i salari e il pil pro capite.

Su questo servirebbe un patto tra sindacati, imprese e governo. È inutile fare richieste a carico del bilancio pubblico: non ci sono più soldi. Nel breve termine, un po’ di recupero di potere d’acquisto può arrivare dal rinnovo dei contratti visto che le imprese durante l’ondata inflattiva hanno in buona parte conservato i propri margini.

In questo senso, ci sono segnali positivi: nell’ultimo trimestre del 2023 e nel primo del 2024, le retribuzioni contrattuali hanno registrato una crescita superiore all’inflazione (che per fortuna è su livelli bassi). Ma per il futuro bisogna orientare tutti gli sforzi, gli investimenti e le riforme per aumentare la produttività, che è il lievito che fa crescere la torta dell’economia e dei salari.

  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali