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L'analisi

Aiuto, il debito ci soffoca!

Stefano Cingolani

Il debito pubblico italiano crescerà ancora, a dispetto delle promesse del governo. Le proposte di Palazzo Sella, sede del ministero dell'Economia, per governarlo e soprattutto per diminuirlo

Tutto nel mondo è debito. E tutto si basa su un pagherò, una promessa che non viene mai realizzata, ma si sposta dall’uno all’altro, da chi chiede i soldi alla banca che poi trasferisce la promessa a un’altra banca, finché quel debito senza mai remissione arriva allo stato il quale promette per non fallire. È la trama di un thriller finanziario all’americana? No, è la realtà raccontata da un banchiere, Paolo Zannoni, per anni alla Goldman Sachs, ora vice presidente vicario del gruppo Prada. “La moneta che cos’è se non debito sorretto da altro debito?”, spiega quando lo incontriamo a Milano poco prima che riprenda un volo per Londra. E aggiunge: “Sia che usiamo un assegno, un trasferimento digitale, una carta di debito o una carta di credito, i beni e i servizi che acquistiamo vengono pagati con debiti della banca e questo denaro, questo valore, non è un mucchietto di moneta sonante depositata nei forzieri di un’istituzione, ma è il debito dell’istituzione, la sua promessa di pagamento”. 
 

C’è una parte di debito implicita, dice il Nobel Thomas Sargent, sotto forma di pensioni, assistenza sociale, bonus, promesse che lo stato deve mantenere


Tutto prima o poi diventa debito, lo sa bene Thomas Sargent, premio Nobel nel 2011, uno dei maggiori teorici della nuova macroeconomia, tra i padri delle “aspettative razionali”. Insieme ad alcuni colleghi ha studiato i dati lungo un percorso di oltre due secoli, dalla rivoluzione americana del 1775 fino al Covid, dal momento in cui Alexander Hamilton mise insieme i debiti dei 13 stati fondatori fino ai grandi sostegni varati da Washington per “pagare la gente affinché stesse a casa e non si infettasse”, come ha detto Sargent durante la sua conferenza alla Luiss giovedì scorso. Sono state sempre le guerre a gonfiare i debiti degli stati e la pandemia per l’economista della New York University è stata una Terza guerra mondiale, mutatis mutandis. Ma i debiti sono sfuggiti di mano. Il governatore della Banca d’Italia Fabio Panetta, che ha introdotto la lezione, ha chiesto se gli investimenti pubblici non hanno prodotto anche sviluppi positivi. Per Sargent “sostegni e sussidi finiscono per creare vantaggi e rendite ad alcuni gruppi sociali, senza benefici effettivi per l’insieme della società”. Lo stesso vale per il protezionismo: “Biden vuole le vetture green, ma non le più economiche che vengono dalla Cina. In che modo se ne avvantaggiano i consumatori?”. Di riffe o di raffe i governi finiscono per violare la promessa con chi presta loro denaro, in modo indiretto oppure con il “taglio dei capelli”, come si dice in gergo, cioè la riduzione secca nel valore dei pagherò.
 

Tutte le nazioni si indebitano, figuriamoci l’Italia. Giancarlo Giorgetti ha appena ricevuto un chiaro avvertimento dall’Unione europea. A differenza da quel che il governo aveva annunciato, il debito pubblico italiano cresce ancora: dal 137,3 al 138,6 per cento quest’anno e arriva al 141,7 nel 2025; mentre il suo costo con le nuove emissioni di titoli di stato salirà al 4 per cento. Oggi si pagano già oltre 80 miliardi l’anno, se continua così sarà superata quota 90 e ci si avvicinerà a 100 già l’anno prossimo. Una parte del debito è esplicita, chiara come il sole, un’altra parte è implicita, dice Sargent, sotto forma di pensioni, assistenza sociale, bonus, tutte promesse che lo stato dovrà pur mantenere. L’Italia è il paese in cui anche l’implicito diventa esplicito e quando la ragione si ferma arriva l’invenzione, come il Superbonus 110 per cento, un rimborso che sfida il buon senso ben al di là della buona finanza. L’economista americano ha studiato gli States con una meticolosa e gigantesca raccolta di dati, e non vuole entrare nel merito delle politiche di altri paesi. Ma l’orologio di Times Square è un memento mori che non ha certo indotto Washington a non indebitarsi per 34 mila miliardi di dollari, arrivando a superare il prodotto lordo annuo degli States che s’aggira sui 27 mila miliardi. I limiti legali introdotti negli Usa non hanno fermato la folle corsa: quando si arriva al rischio default il Congresso alza l’asticella e via andare. In Italia il vincolo è persino in Costituzione, però non c’è diga che tenga.

L’infrazione

Il ministro dell’economia Giorgetti getta tutta la colpa sulla mostruosa creatura generata dal più grande intervento sulla casa dopo il piano Fanfani. In gran parte anche la Commissione europea gli dà ragione. Non si saprà mai con precisione quali benefici ha portato il gigantesco incentivo usato come una sorta di bancomat. Le abitazioni sono più “verdi”?  Consumiamo meno? Abbiamo un risparmio di gas? Toccherebbe all’Enea fare i conti, ma l’ente nato per l’energia nucleare non ha gli strumenti per indagare, si basa sulle dichiarazioni dei diretti interessati, inquilini, proprietari, condomini. Nessuno ha ancora coinvolto l’Enel, l’Eni o i principali fornitori di luce e gas per stimare se, dopo aver scassato il bilancio dello stato, avrà almeno contribuito all’indipendenza energetica. Invece, si fa ricorso a un nuovo rinvio il cui conto finale verrà pagato quando il governo arriverà all’appuntamento delle elezioni politiche. Intanto incombe il voto europeo fra appena tre settimane. Comunque vada a finire, la Commissione ancora in carica guidata da Ursula von der Leyen chiamerà l’esecutivo italiano per comunicare che è stata avviata una procedura d’infrazione per aver violato le regole di bilancio. Non è l’unica, sarà la numero 74, ce ne sono pendenti 57 per mancato rispetto del diritto dell’Unione e 16 per non aver recepito le direttive. Ma sono quisquilie rispetto alle norme che regolano l’Eurolandia. 
 

Comunque andranno a finire le europee, la Commissione chiamerà l’esecutivo italiano per comunicare la procedura d’infrazione


Secondo la riforma del patto di stabilità, il debito dovrà diminuire in media ogni anno di un punto percentuale di pil se il rapporto rimane al di sopra del 90 per cento; il consolidamento dovrà eventualmente proseguire fino a quando il disavanzo strutturale non sia inferiore all’1,5 per cento del pil. Siccome l’Italia si troverà in infrazione, il consolidamento deve essere tale da migliorare il saldo complessivo strutturale di almeno mezzo punto percentuale l’anno. Il negoziato con l’Ue parte da un debito peggiorato, un deficit da ridurre e spazi di manovra pressoché inesistenti. Se il governo vorrà rinnovare anche nel 2025, come ha promesso, il cuneo fiscale e le nuove aliquote dell’Irpef, dove potrà trovare le risorse? Ci vogliono dieci miliardi per ridurre i contributi e 4,5 miliardi per le imposte sui redditi, più il bonus mamme e altri spiccioli fino a 18-20 miliardi di euro. Ci sono solo due possibilità: tagliare le spese o aumentare le tasse, ma su quali contribuenti? Non sul lavoro dipendente ovviamente, non su quello autonomo che rappresenta la principale constituency del centrodestra. C’è sempre la mitica lotta all’evasione, però tra condoni e paci fiscali che dir si voglia non è chiaro come possa essere combattuta.
Immaginiamo la scena. A Giancarlo Giorgetti, accompagnato dai tecnici del ministero, verrà chiesto perché il deficit pubblico, previsto in cinque punti di prodotto lordo, ha superato i sette punti. Quanto al debito, il 4,4 per cento in più non è uno scostamento statistico, è il costo del Superbonus. E come mai è arrivato a 170 miliardi di euro, un fardello che pesa sulle casse dello stato di qui ai prossimi dieci anni? Giorgetti risponderà che è il perfido colpo di coda di un incentivo nato male e cresciuto peggio. D’accordo, ma non lo si era capito già da tempo? Sì lo si era capito, però nessuno aveva avuto il coraggio di bloccare l’emorragia, così il provvedimento è stato prolungato. L’anno scorso il governo ha messo alcune pezze, bloccando ad esempio il Superbonus per le villette. Tuttavia sono scattate eccezioni e scappatoie, i condomini hanno continuato come prima, la valanga è rotolata a valle e ha fatto saltare la diga. E’ stato lo stesso Giorgetti a parlare di un Vajont. Spostare gli effetti avanti nel tempo è un tentativo di incanalare le acque. La ricaduta, però, rischia di essere pesante sulle imprese edili che non potranno ricevere i pagamenti per i lavori già in corso e sulle banche che si ritrovano in bilancio promesse impossibili da rispettare. L’associazione bancaria stima un aggravio del 16 per cento almeno. Ora spunta l’idea di un fondo pubblico per liberare le aziende di credito, insomma un altro salvataggio; a spese di chi? Allora ha ragione Zannoni, se le banche sono in difficoltà i governi intervengono per salvarle: “Gli stati e le banche hanno sempre cercato dei sistemi rapidi, economici e sicuri che trasformassero il debito pubblico in moneta; ma alla fine ogni stato ha finito per scambiare debito pubblico con debito bancario per aumentarne il potere d’acquisto”.

Finanza creativa

Tutta questa montagna di false promesse non si ridurrà certo per magia. Il cireneo che deve portare la pesante croce nazionale si chiama Davide Iacovoni, capo della direzione del debito pubblico al ministero dell’Economia. Prima i Btp Italia, poi quattro Btp valore, adesso il Btp green; la finanza creativa è di casa a Palazzo Sella con l’obiettivo di attirare i piccoli risparmiatori. Questa strategia di vendita al dettaglio è stata subito bollata di “sovranismo debitorio”. Iacovoni è un tecnico puro, nato a Roma nel 1969, laureato in economia alla Sapienza, è entrato al ministero nel 1999 per occuparsi di debito pubblico accanto a Maria Cannata della quale ha preso il posto nel 2018. Da Madame Debito a Mister Debito cosa cambia? La quota di investitori domestici “è molto bassa, quindi vediamo margini per un incremento molto importante”, ha sottolineato Iacovoni. “Stiamo assistendo ad un crescente interesse di persone fisiche con un’entità di risparmio anche modesta”. Il Btp Italia proteggeva dall’aumento dei prezzi, il Btp Valore no e al netto garantisce poco meno del 3 per cento, con una inflazione di fondo (cioè senza energia e prodotti alimentari freschi) attorno al 2,3 per cento, ma in discesa di qui a fine anno. Oggi i titoli di stato in mano alle famiglie sono ancora uno su dieci. Un po’ poco per parlare di ritorno del Bot people, finora non si vede nessuna corsa ai buoni del Tesoro come avvenne negli anni 80 del secolo scorso. Perché?
 

Gettiamo uno sguardo ai risparmi degli italiani, facendoci aiutare dall’indagine della Fabi, la federazione sindacale dei bancari che ha elaborato cifre ufficiali. L’anno scorso i salvadanai delle famiglie erano arrivati a cinquemila miliardi e 215 milioni di euro, in crescita di circa 600 miliardi rispetto al 2019, prima della pandemia. Il 30 per cento è liquido, cioè in conti correnti o di deposito, il 26 per cento impiegato in azioni, il 20 in polizze assicurative, il 13 appena in fondi d’investimento. I titoli di stato ammontavano soltanto a 375 milioni di euro. A quali condizioni il “sovranismo debitorio” può avere successo? Intanto l’Italia non è affatto il paese più risparmioso, secondo uno studio della compagnia di assicurazioni Allianz è nettamente superata dalla Germania (le famiglie tedesche risparmiano un euro su cinque, più del doppio rispetto alle italiane) e dalla Francia che prima della crisi finanziaria era più o meno sullo stesso livello. La discesa è cominciata nel 2010, poi con la pandemia è arrivato il crollo dal quale il risparmio si sta riprendendo a fatica: oggi l’Italia è stata superata persino dalla Gran Bretagna i cui cittadini storicamente preferiscono investire e rischiare più che risparmiare. Il sorpasso dipende da molti fattori, compreso il timore del futuro che induce a tenere i soldi “sotto il materasso”. Ma spingere le famiglie verso i Btp è nel loro interesse? Calcoliamo quanto ha reso investire nel decennio 2012-2022, cioè tra la crisi finanziaria italiana e la pandemia, secondo le stime di un gruppo di consulenti finanziari indipendenti. Con una crescita media dei prezzi pari all’1,3 per cento chi ha puntato 100 euro in borsa ha guadagnato sei euro al netto dell’inflazione e delle tasse che sono in Italia del 26 per cento; chi ha messo i propri risparmi nelle obbligazioni, nonostante paghino al fisco il 12,5 per cento appena, ha perso otto centesimi. Solo le azioni sono state capaci di battere il rincaro dei prezzi. Studi condotti su periodi più lunghi confermano la tendenza al di là degli alti e bassi di un mercato per sua natura volatile e volubile. I titoli di stato, secondo una proiezione che parte dal 2005, non hanno mai fruttato il 3 per cento netto.
 

I risparmi degli italiani l’anno scorso erano arrivati a cinquemila miliardi e 215 milioni di euro, in crescita di circa 600 miliardi rispetto al 2019

 

Chi paga

Lo stato affamato di denaro attira il risparmio, ma rende poco, meno delle aziende quotate, mentre l’inflazione favorisce i debitori non i creditori. E’ il costo della sicurezza, si dice, i Btp sono un rifugio perché lo stato non fallisce. Come ha dimostrato la crisi del 2010-2011 non è del tutto vero, la Grecia è fallita ed è stata salvata dall’Eurolandia, in Spagna e in Irlanda sono state aiutate le banche, l’Italia se l’è cavata da sola, ma pagando un prezzo molto elevato. Ci sono voluti 16 anni perché il pil tornasse agli stessi livelli del 2007. L’Istat calcola che il divario di crescita con i principali paesi s’è fatto più largo: dieci punti con la Spagna, 14 con la Francia, 17 con la Germania. Se si confronta il 2023 con il 2020 il gap sale a 20 punti con Germania e Francia e addirittura a 30 con la Spagna. La pie’ veloce Italia non ha mai sorpassato la tartaruga che aveva davanti.
 

Torniamo a Paolo Zannoni. Nel suo libro appena pubblicato “Moneta e promesse” (Rizzoli) fa un tuffo nel passato e racconta “sette storie di banchieri che hanno plasmato il mondo moderno”. Dalla Pisa del XII secolo a Venezia del ’500, dal Regno di Napoli all’Inghilterra del ’700 arriviamo fino alla grande crisi finanziaria del 2008 quando il segretario al Tesoro Hank Paulson (“il mio capo alla Goldman”, dice Zannoni), mise in scena uno dei più grandi salvataggi della storia che ha coinvolto l’intero sistema. Se le banche falliscono i governi le salvano. E’ sempre così, “perché i debiti delle banche sono la moneta delle nazioni”. La questione diventa “chi salva chi”, si chiede Sargent, e con quale moneta, quella cattiva che spiazza quella buona? Spendere, tassare e prendere in prestito, le tre prerogative dei governi. Si aumenta la liquidità generando inflazione, si dà una sforbiciata ai risparmiatori e se nemmeno questo basta, si finisce per aumentare le imposte. L’Italia non s’è fatta mancare nessuna delle tre pillole amare quando nel 2011 la crisi finanziaria internazionale stava diventando crisi sovrana. Sargent la chiama “legge di gravità”: il peso del debito cresce, ma poi ricade sempre in un modo o nell’altro sui contribuenti.

 

Se le banche falliscono i governi le salvano, “perché i debiti delle banche sono la moneta delle nazioni”. Ma “chi salva chi”, si chiede Sargent

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