Al Gore - foto GettyImages

Contraddizioni

Anche Al Gore s'è accorto che sul fronte energetico non tutto fila per il verso giusto

Chicco Testa

L'ambientalista statunitense si dimostra ottimista, ma poco razionale dinanzi allo stato effettivo delle cose. Ridurre la dipendenza dai combustibili fossili? Prima bisogna sconfiggere la povertà energetica in alcune aree del mondo

Al Gore può essere a tutti gli effetti considerato il padre delle battaglie contro il cambiamento climatico. Il suo An inconvenient truth, per il quale ha anche ottenuto un Nobel per la pace, ha di fatto dato il via diciassette anni fa ai vari movimenti che da allora continuano a battere sul tema. E ha coinvolto governi e organizzazioni internazionali. Pochi giorni fa con un’intervista a Repubblica ricapitola lo stato delle cose e lancia un messaggio di ottimismo. Le cose stanno cambiando dice e cambieranno sempre di più. A me piacciono  molto le persone ottimiste, è di molte di loro che il mondo ha bisogno e se non sei un po’ ottimista le cose non le cambi di sicuro. Ma l’ottimismo è tanto più forte quanto più si accompagna alla razionalità che ci obbliga a guardare le cose per quel che sono e non per come ci piacerebbe fossero.

Al Gore sottolinea giustamente i progressi fatti sul fronte delle energie rinnovabili, sulla caduta dei prezzi delle batterie, sulla diffusione delle auto elettriche. Ma anche a lui non sfugge evidentemente che non tutto va per il verso giusto.  Per esempio ci si dovrebbe domandare come mai nonostante questi fatti positivi le emissioni totali di gas climalteranti continuino a crescere anno su anno. Ed è qui che l’analisi di Al Gore fa cilecca. La responsabilità sarebbe delle compagnie dell’oil and gas (e del carbone) che non mantengono le loro promesse, che però non si è ben capito bene quali dovrebbero essere. Smettere di investire? Smettere di vendere prodotti fossili? In realtà la domanda sempre maggiore di petrolio, carbone e gas è guidata non dall’offerta, ma dalla domanda sempre crescente di questi prodotti. Per una ragione molto semplice, ma continuamente rimossa dagli ottimisti con poca razionalità. Una grande parte del mondo – Asia, Africa, Sudamerica – vuole crescere economicamente, raggiungere un livello minimo di benessere e per fare questo ha bisogno di energia in grande quantità e in modo costante. E il modo più semplice per ottenere questo risultato è ricorrere ai combustibili fossili, che da decenni continuano a costituire l’80 per cento dei consumi totali di energia. Solo che nel frattempo essi sono raddoppiati e continuano a crescere.  L’esempio più eclatante è la Cina, che negli ultimi vent’anni ha quadruplicato i suoi consumi di energia e con essi è diventata il primo emettitore mondiale. Anche se le sue emissioni pro capite rimangono bel al di sotto di quelle degli Stati Uniti di Al Gore. Gli stessi Stati Uniti che anche sotto Biden si sono ben guardati dall’interrompere la corsa alle nuove estrazioni di gas e petrolio di cui sono diventati i primi produttori mondiali e che ormai esportano a piene mani.

D’altra parte, che cosa significhi restare senza combustibili lo abbiamo ben sperimentato noi in Europa nei primi anni della crisi con la Russia, nostro ex principale fornitore di gas. Prezzi alle stelle, risorse pubbliche ingenti per sostenere i consumi, recessione. Ne siamo usciti, ma con un prezzo dell’energia ancora decisamente più alto di quello americano. Di questo Al Gore non parla, come non parla di come sconfiggere la povertà energetica che ancora riguarda larghe parti del mondo. Che sempre più guarda con fastidio a chi con la pancia piena vorrebbe dettare a loro ricette di austerità energetica. Qualcuno parla di neocolonialismo ambientale. 

Al Gore presiede oggi un fondo per finanziare l’innovazione tecnologica. Forse qualche segnale maggiore di ottimismo può venire da lì. Se i combustibili fossili ridurranno la loro importanza questo avverrà solo se nuove tecnologie ne potranno prendere il posto. Ma la strada da fare è ancora lunga.