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Assoluta o relativa? I problemi di misurazione della povertà

Massimo Baldini

Un indicatore (quello Istat) dice che i poveri stanno aumentando, mentre quasi tutti gli altri dicono il contrario. Il gap tra la dinamica dell'economia reale e quella della povertà 

L’andamento generale dell’economia italiana non è certo eccezionale ma è comunque positivo: il numero degli occupati ha raggiunto il massimo storico e la crescita del pil è leggermente superiore a quella media dell’area euro. Eppure, il numero di poveri continua ad aumentare. Il recente Rapporto annuale dell’Istat ci dice che l’incidenza della povertà assoluta tra le famiglie è salita in modo quasi continuo dal 2014 (6,2 per cento) al 2023 (8,5 per cento) e che l’incidenza tra gli individui è cresciuta ancora di più, dal 6,9 per cento al 9,8 per cento nel 2023. Un italiano su dieci è in povertà assoluta. Possibile che ci sia una tale divergenza tra la dinamica dell’economia reale e quella della povertà?

Il problema è che abbiamo a disposizione diversi indicatori della povertà, e quello più diffuso dà indicazioni che sono in contrasto con le altre evidenze disponibili.

La povertà è un fenomeno complesso e dalle tante dimensioni, quindi è utile avere a disposizione diversi strumenti per misurarla. La distinzione di base è tra indici di povertà relativi, dove la linea di povertà cambia di anno in anno in base all’andamento del reddito o del consumo nazionale, e indici assoluti, in cui la linea di povertà resta fissa in termini reali e nel tempo viene aggiornata solo per l’inflazione.

L’approccio condiviso nell’Unione europea misura la povertà in modo relativo sul reddito: si è poveri se il reddito disponibile familiare è inferiore al 60 per cento della mediana del reddito stesso, calcolata sul singolo paese. Si può anche calcolare un indice di povertà assoluta di reddito, se si prende la linea calcolata in un certo anno e il suo valore reale resta costante nel tempo.

A fianco dell’indicatore relativo di reddito, l’Istat – unico in Europa – produce anche una stima della povertà assoluta basata sul consumo, dove la linea è il valore di un paniere di spesa che si ritiene necessario per vivere in modo decente. Questo paniere varia, nelle elaborazioni Istat, in base al tipo di famiglia, alla dimensione del comune e alla regione di residenza. Il valore della linea rimane poi costante in termini reali. E’ povero chi ha una spesa inferiore a questa linea. Negli ultimi dieci, anni proprio la povertà assoluta basata sulla spesa è diventata in Italia il principale punto di riferimento nelle discussioni sulla povertà nei media e nella politica. Questo indicatore mostra, come visto, una crescita dell’incidenza della povertà.

Ma vi sono molti altri indicatori disponibili per misurare il disagio economico delle famiglie, e quasi tutti danno indicazioni diverse. L’indice relativo sul reddito, ad esempio, è costante se la linea di povertà è il 60 per cento del reddito mediano, in riduzione almeno fino al 2021 con linea al 40 per cento. Sicuramente la povertà di reddito è cresciuta nel 2022-23 a causa dell’inflazione elevata (non sono ancora disponibili i dati), ma il trend della povertà assoluta di reddito dovrebbe continuare a mostrare un calo rispetto al 2015.

Vi sono poi diversi indici multidimensionali che segnalano nell’ultimo decennio una riduzione della povertà. La percentuale di persone che vivono in famiglie con bassa intensità di lavoro (dove cioè gli adulti lavorano meno del 20 per cento del tempo potenziale) è scesa dall’11,2 per cento nel 2015 all’8,9 per cento nel 2023, grazie all’incremento del numero degli occupati. La quota di persone in grave deprivazione materiale (che registrano almeno 7 su 13 indicatori di grave deprivazione sociale ed economica, ad esempio essere in arretrato con le bollette, non potersi permettere un pasto adeguato ogni due giorni, ecc.) è crollata da 12,1 per cento nel 2015 a 4,7 per cento nel 2023, anche se nell’ultimo anno è leggermente cresciuta rispetto al 2022. Nel complesso, le persone a rischio di povertà o di esclusione sociale (una situazione che riguarda chi ha almeno una delle tre condizioni viste: povertà relativa di reddito, bassa intensità di lavoro, grave deprivazione materiale) sono scese da 28,4 per cento nel 2015 a 22,8 per cento nel 2023. Ancora tante, ma in calo significativo.

Abbiamo quindi un indicatore, quello che domina la scena, che dice che la povertà sta aumentando, mentre quasi tutti gli altri dicono il contrario. Ciò pone almeno due problemi. Uno è di tipo metodologico: l’abbondanza di dati e misure sulla povertà è utile per aiutare a capire un fenomeno così variegato, ma a volte rischia di rendere difficile capire cosa sta accadendo e può fornire argomenti sia a chi è convinto che le cose stanno peggiorando sia a chi vede il bicchiere mezzo pieno. 

L’altro problema riguarda la relazione tra povertà, andamento dell’economia e politiche redistributive. Se la povertà continua a salire quando il pil cresce, allora serve che la politica si attivi per redistribuire ancora di più a chi non ce la fa. Se invece la povertà scende quando il pil aumenta, allora più che rafforzare le politiche redistributive – che restano essenziali per una parte della società compresi i lavoratori a basso reddito – bisogna sostenere la crescita economica se vogliamo ridurre ancora la povertà.

Massimo Baldini, professore di Politica economica, Università di Modena-Reggio Emilia

Questo articolo è stato pubblicato in contemporanea, in una versione estesa, su Lavoce.info

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