Foto Ansa

automotive

I danni prodotti dal nazionalismo del governo su Stellantis e le auto

Stefano Cingolani

L’incontro di Carlos Tavares con i sindacati a Torino ha partorito alcune promesse ma non basteranno a saturare gli impianti e la colpa non è tutta dell'azienda. Salvare i posti di lavoro è più che legittimo, applicare una politica nazional-protezionista però non è la via migliore

L’incontro di Carlos Tavares con i sindacati a Torino ha partorito promesse: due nuove vetture ibride, il ribadito impegno a restare e a sostenere il proprio primato in Italia, la voglia di spegnere le polemiche visto che dalla prossima settimana partono gli incentivi, anche se non sono concentrati nell’elettrico che è il perno del piano Stellantis. La domanda di auto tutte elettriche è più fiacca del previsto mentre sbarcano le vetture dalla Cina anche quelle di Leapmotor partner cinese della Stellantis. Il primo trimestre 2024 è cominciato male: –12% su scala mondiale. In Italia c’è stato un crollo delle auto (– 23%), vanno bene i veicoli commerciali, ma non bastano. Tavares intende assemblare a Mirafiori Fiat 500 ibride, non solo elettriche, mentre per la fabbrica di Melfi è prevista una Jeep anch’essa ibrida. Non basteranno a saturare gli impianti, sindacati e governo all’unisono chiedono di più. I vertici della Stellantis hanno commesso errori ed omissioni, Il Foglio lo ha scritto suscitando anche qualche irritazione come sul balletto a proposito del nome per il suv Alfa prodotto a Tychy, chiamato prima Milano poi Junior. Ma siccome questo è un giornale dove alberga sempre il dubbio, adesso ci viene da chiedere a noi stessi e a tutti i critici: che cosa può fare davvero un grande produttore generalista con otto milioni di vetture? I suoi concorrenti Toyota, Volkswagen, Renault, non sono anch’essi alle prese con la più grande trasformazione produttiva da un secolo a questa parte? 

È come se nell’arco di pochi anni si fossero sommate innovazioni della stessa portata di quelle che avevano impiegato decenni ad entrare sul mercato. Il motore a scoppio fu inventato e poi perfezionato nella seconda parte dell’Ottocento, la catena di montaggio è stata introdotta da Henry Ford a cavallo della prima guerra mondiale, il Giappone è diventato il numero uno nell’ultima parte del Novecento. Oggi il motore elettrico, la nuova organizzazione del lavoro e l’irrompere della Cina si sono accavallati in una quindicina di anni appena. Chi produce auto di nicchia (per quanto ampia) ad alto valore aggiunto soffre meno ed è più rapido nell’adattarsi, si pensi tra gli europei alla BMW, alla Mercedes, alla Porsche, o alla Lexus il brand lusso della Toyota. Chi assemblea e vende auto di massa deve fare i conti soprattutto con i costi di produzione. E qui la concorrenza con Pechino è insostenibile. Secondo i calcoli di alcuni esperti, persino raddoppiando le tariffe i produttori cinesi di auto elettriche avrebbero un vantaggio competitivo. La Byd ormai ha sorpassato la Tesla. 

Un portoghese naturalizzato francese, Carlo Tavares, non fa che seguire gli insegnamenti di un altro portoghese anche se naturalizzato inglese, David Ricardo. Quando assembla in Polonia o in Marocco le vetture più a buon mercato, applica la teoria dei vantaggi comparati mettendo a confronto i costi di produzione. Lo stesso accade anche quando va in Spagna dove i salari non sono molto più bassi di quelli italiani, ma la produttività degli stabilimenti è molto più alta. Senza tirare in ballo i cinesi, la General Motors vende nel mondo grosso modo quanto la Stellantis con 180 mila dipendenti, 120 mila in meno. L’automobile sta attraversando lo stesso dramma industriale, sociale, umano dell’editoria quando è arrivato il computer in redazione o delle miniere all’epoca di Margaret Thatcher la quale tra l’altro smantellò il colosso statale dell’auto, la British Leyland. Oggi la Mini e la Rolls Royce sono della tedesca BMW, la Jaguar e la Land Rover dell’indiana Tata, la MG della cinese Saic. Ma la Gran Bretagna non ha perso la sua sovranità. La Volvo è cinese da 14 anni, eppure la Svezia è entrata nella Nato e dà all’Ucraina molti più soldi e armi dell’Italia. Salvare i posti di lavoro è più che legittimo, lo fanno tutti, anche inglesi e svedesi, per non parlare di tedeschi e francesi. Ma il nazional-protezionismo non è il solo modo e in ogni caso non è certo il migliore.

Di più su questi argomenti: