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Molta confusione sul piano industriale dell'Ilva e una sola certezza: cassa integrazione

Annarita Digiorgio

L'amministrazione straordinaria ha stralciato il closing della vendita al 2024, per firmare un nuovo contratto di affitto fino al 2030, ma nel 2030 il siderurgico di Taranto non esisterà più. Il 2030 coincide con il fine vita dell’unico impianto attualmente attivo: Afo4

Taranto. Mentre il ministro Adolfo Urso parla di cinque multinazionali interessate all’acquisto di Ilva, l’amministrazione straordinaria due giorni fa ha stralciato il closing della vendita al 2024, per firmare un nuovo contratto di affitto fino al 2030. Con conseguente rinnovo dei patti parasociali, anche stavolta tenuti segreti. Ma nel 2030 il siderurgico di Taranto non esisterà più. Il 2030 coincide con il fine vita dell’unico impianto attualmente attivo: Afo4, che marcia a 4.500 tonnellate di ghisa giornaliere rispetto alle 16.500 potenziali. Poco più di un milione di tonnellate l’anno. Nel frattempo i commissari, il 7 maggio, hanno presentato ai sindacati il piano di ripartenza. Che non è un piano industriale, ma ha il solo obiettivo del “recupero della piena funzionalità degli impianti, condizione necessaria per porre le basi per il rilancio degli asset e l’avvio della fase di vendita”. In realtà, come chiarito dal commissario Giancarlo Quaranta, il vero obiettivo è quello di “poter dimostrare che quanto preventivato come valore del prestito ponte di 320 milioni potrà dall’azienda essere restituito”. E di questo domani parlerà a Catania Urso con il commissario ue all’Antitrust Margrethe Vestager.

Secondo il piano previsto dai commissari lo stabilimento potrà ritornare a 6 milioni annui solo nel 2026. Mentre si sono persi dai radar gli 8 milioni necessari per il breakeven, livello per cui ArcelorMittal aveva già richiesto l’autorizzazione. Per questo il cosiddetto piano Urso riporta, a caratteri cubitali, una bella dicitura: aumento dei dipendenti in cassa integrazione. A fine mese riprenderà la trattativa per la Cigs, ed è prevedibile che questa volta i sindacati, a differenza di quanto fecero con l’ad Lucia Morselli, firmeranno l’accordo. Perché in cambio dell’accordo, con la gestione pubblica, verrà concesso loro più potere di manovra.

Secondo il piano a settembre dovrebbe ripartire anche Afo2, mentre non si hanno notizie su Afo1. Tutti e tre questi altoforni hanno chiusura del ciclo entro il 2030. E comunque pur nella impossibile ipotesi di un funzionamento contemporaneo a pieno regime, non supererebbero i 6 milioni. Di conseguenza, diversamente da come previsto nell’accordo del 2018, non tornerebbero più in servizio i 1.700 lavoratori in Cigs sotto Ilva in as. Con la certezza che nessun governo mai toglierebbe la cassa integrazione fino alla pensione (anticipandola).
Per evitare questo, come ribadito durante il tavolo dal segretario Uilm Guglielmo Gambardella, l’unica garanzia per un’Ilva a pieno regime a a lunga scadenza, è il riavvio di Afo5. L’altoforno che oggi potrebbe essere alimentato con tecnologie green, come i polimeri che Iren vende già in tutto il mondo, e che l’azienda Unità di Misura sta per realizzare a Taranto. Ma lo stato italiano non ha i soldi (400 milioni) per rifare Afo5. Figurarsi per forni elettrici a gas o idrogeno. Per questo Urso, trincerandosi dietro scelte europee (anziché contrastarle come ha fatto con le auto euro 7), ha stralciato l’altoforno più grande d’Europa (nello stabilimento a ciclo integrale più ambientalizzato del mondo, unico con i parchi minerari coperti). Anche se un piccolo mistero aleggia a riguardo. Nelle slide presentate dai commissari il 7 maggio, Afo5 non era affatto contemplato. Ma dopo le rimostranze espresse da Gambardella, nelle slide definitive consegnate dall’azienda il giorno dopo ai sindacati, Afo5 è magicamente ricomparso.

Mentre non si parla più né di forni elettrici né di dri, idrogeno e altre amenità. Piani che eventualmente sarebbero nelle mani di un futuro, ipotetico, acquirente. E che il ceo di Metinvest ha gia cassato per Piombino: “Il gas, nonostante la presenza del rigassificatore, mi costa 8 euro contro 0,2 che costa in Algeria, in Egitto o in Libia. Per portare il minerale dall’Ucraina fino a Piombino ci passo davanti a queste tre nazioni. Fare un impianto di preridotto qui vorrebbe dire che il mondo è completamente cambiato”. Ad avvalorare questa ipotesi fiumi di editoriale di Davide Tabarelli, oggi commissario Acciaierie d’Italia scelto da Urso.

I 320 milioni del prestito ponte serviranno solo per questo piano di ripartenza. Insieme ad altri 150 milioni che, col decreto Agricoltura, il governo sta spostando dal patrimonio destinato di Ilva in as ad Acciaierie d’Italia in as. Quel famoso miliardo che fu sequestrato ai Riva e che il governo Renzi destinò alle bonifiche. E che ora, a ritmo di 150 milioni per volta, viene spostato dalle bonifiche agli impianti a carbone. Nel silenzio generale, tra cozze pelose e granchi blu.

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