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L'editoriale del direttore

L'agenda Panetta spiega perché è ora di condannare il trumpismo

Claudio Cerasa

Difesa del mercato, elogio delle società aperte, messaggi contro  la cultura del capro espiatorio. Perché quanto detto dal governatore della Banca d'Italia è un grande argine contro il populismo (anche italiano) dell’internazionale sovranista. Numeri e modelli

Meno trumpismo uguale più libertà. Il 31 maggio, per il mondo di Bankitalia, è una data importante. E’ il giorno in cui il governatore mette insieme idee, numeri, statistiche, previsioni, impressioni, valutazioni sui dodici mesi appena passati e su quelli che verranno. Si chiamano, ritualmente, “considerazioni finali”, e quelle di ieri sono state le prime offerte dal governatore Fabio Panetta.

Le considerazioni finali sono spesso un esercizio di stile finalizzato a evidenziare, in modo freddo e apolitico, quelle che sono le generiche problematiche di un paese, sul terreno delle sfide economiche del futuro. Il governatore, tradizionalmente, cerca di volare alto, altissimo, quasi fuori dall’atmosfera terrestre, e solitamente cerca di non dare agli osservatori punti di riferimento specifici per poter dire, dandosi di gomito: ehi, hai visto con chi ce l’aveva? Ieri, Panetta, come nella tradizione di Bankitalia, ha scelto di volare alto. Ma la sua relazione, se osservata con sguardo attento, offre numerosi spunti per poter leggere agevolmente tra le righe delle considerazioni finali. E tra le righe del discorso, ciò che emerge con chiarezza è un messaggio consegnato dal numero uno di Bankitalia a coloro che governano l’Italia che, per utilizzare un verbo molto diffuso in queste ore sui giornali americani, potremmo sintetizzare così: non vi azzardate a non condannare Trump. O meglio: non vi azzardate a non condannare il trumpismo. Dice Panetta che una politica con la testa sulle spalle non è quella che trasforma il futuro in un luogo di perdizione, di paura, di terrore, di angoscia, ma è quella che, al contrario, riesce a fare della globalizzazione, del mercato, dell’ordine liberale, “dei princìpi di cooperazione internazionale, di quell’insieme di istituzioni multilaterali che dal secondo dopoguerra hanno sorretto lo sviluppo mondiale e favorito il mantenimento della pace tra le principali potenze”, il centro della propria agenda economica, strategica e culturale. 

Si cresce eliminando le barriere, dice Panetta, non creandone di nuove, e si cresce non standosene rintanati negli stati, ma facendo tutto il necessario affinché le democrazie liberali possano aiutarsi a vicenda. I governi di molti paesi avanzati, dice Panetta, sono divenuti riluttanti a dipendere economicamente da nazioni ritenute inaffidabili dal punto di vista geopolitico e questo dovrebbe suggerire le società aperte a fare squadra, a rafforzare gli accordi di libero scambio e a migliorare i problemi dei propri paesi senza creare nemici immaginari. Non lo dice così esplicitamente Panetta ma quando, parlando dell’Italia, il governatore invita a ragionare sul fatto che nell’ultimo quarto di secolo l’economia italiana è quella con la minore crescita del prodotto per abitante, che i problemi dei salari in Italia non possono essere spiegati senza ragionare sulla grandezza delle nostre imprese, che i problemi demografici non possono essere governati senza ragionare sugli immigrati che mancano al nostro paese e che potrebbero aiutare a risolvere grossi problemi sul tema della manodopera, che solo la produttività potrà assicurare sviluppo, lavoro e redditi più elevati, che solo un’attenzione ancora maggiore all’uso della tecnologia per combattere l’evasione fiscale ci potrà aiutare a trovare le risorse per migliorare l’Italia, che solo eliminando i vincoli alla concorrenza che in molti settori creano rendite di posizione e limitano l’accesso di nuovi operatori, comprimendo l’innovazione, la produttività e l’occupazione sarà possibile valorizzare i nostri talenti.

Quando fa tutto questo, Panetta, altro non sta facendo che invitare i governanti a mettere da parte l’agenda della paura, della cialtroneria, dell’anti europeismo e del trumpismo per provare a migliorare l’Italia senza scaricare su altri, come l’Europa, i problemi che riguardano le inefficienze del nostro paese. In sintesi. Non cerchiamo di nascondere i problemi interni individuando nemici esterni (Europa), non inseguiamo  le chimere populiste (trumpismo), non assecondiamo con miopia gli istinti anti europeisti (lepenismo). Non usiamo l’Ucraina per giustificare i problemi della nostra economia (la guerra tra Russia e Ucraina non è mai stata citata dal governatore, ed è interessante il fatto che non vi sia alcuna evidenza che la difesa di una democrazia aggredita abbia generato un impatto negativo sulla nostra economia). Non martelliamoci in mezzo alle gambe creando ostacoli a chi vuole innovare (viva la concorrenza). Smettiamola di avere paura del futuro assecondando istinti luddisti (vedi la nostra insufficiente attività in materia di venture capital, settore all’interno del quale il flusso di investimenti annuo è tra 0,5 e 1,5 miliardi nel triennio 2021-23, un valore cinque volte inferiore rispetto a Germania e Francia). E occupiamoci ogni tanto del vero made in Italy che non è solo pizza, prosciutto e mandolino (agenda Urso detto Urss) ma è soprattutto manifattura, tecnologia e robotica (nel 2021 in Italia vi erano 13,4 robot ogni 1.000 addetti, contro 12,6 in Germania e 9,2 in Francia). Meno trumpismo uguale più libertà. Buona la prima. 

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.