Come il governo dovrebbe affrontare l'evasione dopo il pasticcio Redditometro

Marco Leonardi e Leonzio Rizzo 

Per placare gli elettori, il governo ritira lo strumento resuscitato appena 20 giorni fa. Ma resta il problema dell'evasione fiscale. Sarebbe meglio rafforzare strumenti efficaci come gli Indici sintetici di affidabilità

E così la campagna elettorale si conclude con un emendamento del governo che cancella il redditometro che era stato resuscitato dallo stesso governo appena 20 giorni fa. La vicenda è indicativa di come la politica in Italia faccia caso solo alla percezione dei cittadini piuttosto che al merito delle misure, soprattutto in periodi preelettorali. Il redditometro serve all’Agenzia delle entrate come strumento di ultima istanza, contro gli evasori totali (quelli che non dichiarano nulla), per dedurre un reddito dai loro consumi. L’iniziativa del viceministro Maurizio Leo di resuscitare questo strumento è stata particolarmente ingenua: “Redditometro”, basta la parola, al di là del merito, per spaventare gli elettori. 

  
A noi spaventa invece l’incoerenza nella visione complessiva rispetto all’altra misura promessa dal governo, il concordato preventivo, che si basa esattamente sui presupposti opposti: siccome il problema è nella piccola evasione delle partite Iva, tanto vale indurle “con le buone” a dichiarare un po’ di più di quello che normalmente fanno. In teoria  un buon proposito, in pratica ne aspettiamo la realizzazione per capire se anche stavolta c’è molto rumore per nulla.

 

Il redditometro, che tradizionalmente è stato usato (poco) per gli evasori totali, nelle intenzioni del governo (prima dell’improvviso pentimento) doveva essere esteso.  Il governo con il dl del 20 maggio ha resuscitato uno strumento sospeso nel 2018 per manifesta inefficacia, visto che aveva generato un recupero di una manciata di milioni di gettito. L’idea del redditometro consiste nel verificare se le spese per consumi e investimenti del contribuente sono coerenti con il reddito dichiarato. Il decreto prevede molte categorie di spesa. Ci sono gli alimentari, l’abbigliamento, i mutui, bollette di luce, acqua e gas, spese di trasporto, spese per il tempo libero etc. La domanda è come si farebbe ad avere queste informazioni in modo puntuale per ogni consumatore. Nell’allegato del decreto si dice genericamente che si farà uso delle informazioni in possesso dell’amministrazione finanziaria. Questo chiaramente è molto difficile da fare in un contesto in cui si possono effettuare transazioni in contanti fino a 5 mila euro. L’amministrazione finanziaria può in genere disporre di informazioni su consumi e investimenti dei contribuenti legate a transazioni elettroniche. Chiaramente è un decreto il cui impatto sugli evasori sarebbe stato nullo. 

 

Ma allora perché tanto chiasso? Perché è un provvedimento che potrebbe essere percepito dagli elettori come in contrasto con il messaggio finora dato dal governo e soprattutto dalla premier, che per esempio nel famoso discorso di Catania dello scorso anno, ha detto che il suo governo si propone di non chiedere “il pizzo di stato” (che sarebbero le imposte evase) ai piccoli imprenditori. Se però, oltre alle spese in eccesso, iniziano a mancare le entrate son dolori. 

 

Dalla relazione del Mef sull’economia non osservata del 2023 quasi il 70 per cento dell’Irpef, dovuto da imprese e lavoratori autonomi è evasa.  Se si somma l’evasione Irpef del lavoro autonomo (32 miliardi) e quella Iva (27 miliardi) si arriva a quasi 60 miliardi.  Anziché pensare al redditometro, si dovrebbero rafforzare gli unici strumenti che sembrano finora avere funzionato: gli Isa, indici sintetici di affidabilità da 0 a 10, che risultano da modelli appositamente compilati da imprese e lavoratori autonomi con fatturato inferiore a 5,1 milioni di euro.

  
C’è una bella differenza tra un contribuente “affidabile” e uno “non affidabile”. Ad esempio un commerciante medio-grande nel 2021 con un Isa maggiore di 8 (sono il 43 per cento) dichiara in media un fatturato di 576 mila euro e un reddito imponibile lordo di 61 mila euro; uno con Isa inferiore a 8 (il 57 per cento dei commercianti medio-grandi) dichiara in media 434 mila euro di fatturato e 19 mila euro lordi di reddito imponibile. Questa differenza sembra essersi aggravata nell’ultimo anno, con particolare evidenza nel sud Italia.

 
Il problema che il governo dovrebbe seriamente porsi è come utilizzare tali indici per decidere i contribuenti su cui fare i controlli e soprattutto per formulare delle proposte ragionevoli, per il contribuente e l’amministrazione, di concordato preventivo. Se si vuole procedere con il concordato preventivo per recuperare l’evasione, sarebbe bene concentrarsi su come formulare delle serie proposte ai contribuenti con Isa basso, associandole a credibili controlli nel caso di non adesione, anziché mettere sul piatto il poco efficace redditometro. Forse però definire in modo credibile le proposte da fare per il concordato preventivo scatenerebbe un’altra bufera. 

 

Non bisogna dimenticare che l’evasione complessiva è generata in gran parte dalla somma di tanta piccola evasione. Le banche o le gradi multinazionali non possono evadere, di certo possono eludere, ovvero sfruttare le leggi a livello globale per minimizzare il debito di imposta. E’ legittimo e doveroso combattere anche questo tipo di operazioni, ma per farlo non bastano i proclami elettorali, ci vogliono seri accordi internazionali, estremamente difficili da realizzare, per l’Italia a capo del G7 potrebbe essere una buona occasione di porre il problema.