L'analisi

I tabù che Meloni deve superare per cambiare il suo rapporto con le banche 

Salvatore Rossi

Gli istituti bancari sono spesso bersaglio dei populisti perché accusati di avidità e inefficienza: la ragione è data dalla loro natura, ovvero mediare tra interessi opposti di depositanti e prestatori. Restano comunque servizi essenziali, che meriterebbero una maggiore serietà politica dalle istituzioni

Le banche sono sempre state impopolari, quindi abituale bersaglio dei populisti di ogni natura e origine. E i populismi vanno crescendo nelle democrazie moderne. Prendersela con le banche è facile, sono avide, sono inefficienti, sono sorde e cieche di fronte ai bisogni del popolo. Queste accuse e altre sono state scagliate contro le banche anche in epoche storiche lontane. In parte le accuse avevano, e hanno, un fondamento: il comportamento di molte banche nei confronti della loro clientela e del paese intero che le ospita a volte è detestabile, ma non mi pare che esse compiano azioni peggiori di quelle attribuibili al resto delle imprese capitalistiche, ai tanti uncle Scrooge di dickensiana memoria che hanno abitato per secoli l’immaginario della gente comune. Dunque ci dev’essere una ragione intrinseca, oggettiva, che spieghi questa impopolarità.
 

Il fatto è che una banca, intendo una banca tradizionale che raccoglie depositi e fa prestiti, è un intermediario puro che si frappone fra due opposte categorie di clienti: coloro che le forniscono la materia prima, il risparmio, e coloro che ne acquistano il servizio principale, i prestiti. I primi vorrebbero la remunerazione più alta possibile e una rassicurazione ampia che la banca farà buon uso della materia prima fornita facendo prestiti a chi se li merita in ragione delle proprie prospettive economiche. I secondi vogliono pagare il meno possibile e raccontare poco dei propri affari, centellinando quelle informazioni che servirebbero invece alla banca a capire se sta facendo bene il suo mestiere di prestatore.
 

Le due categorie di clientela sono oggettivamente in conflitto d’interessi. La banca sta in mezzo e deve, appunto, mediare. Quindi prende botte dagli uni e dagli altri. I depositanti lamenteranno di essere maltrattati con interessi bassi o nulli e diffuse opacità sull’attività di prestito che la banca fa con i “loro” soldi; i prestatari lamenteranno che la banca è avara, lesina i fondi, vuole troppe garanzie. Entrambe le categorie di clienti denunceranno poi inefficienze e burocratismi, cosa probabilmente vera in molti casi.
 

In un paese come l’Italia con una lunga tradizione culturale che è indifferente (quando non avversa) ai capisaldi del libero mercato, indignarsi con le imprese, tutte le imprese, è esercizio diffuso, da parte sia dei politici sia dei cittadini. Farlo con le banche lo è ancora di più, perché le banche sono considerate imprese particolarmente sospette, un caso estremo nel novero dei nemici del popolo, dato che neanche fabbricano macchinari o gestiscono un negozio, ma, secondo la vulgata corrente, si appropriano del denaro altrui per farne usi misteriosi e a volte illeciti.
 

Ciò è drammaticamente sbagliato. Le banche sono, sì, imprese speciali, ma solo perché fanno circolare il sangue (il denaro) nell’organismo dell’economia, non perché creino schiuma finanziaria utile solo a ingrassare i compensi di chi vi lavora. Sono imprese che vendono servizi essenziali, operano in concorrenza fra loro, devono fare profitti innanzitutto per finanziare i loro investimenti, che sono ingenti in un mondo di tecnologie sempre cangianti; poi per aumentare il patrimonio; e infine, perché no, per remunerare i loro azionisti. Ma devono riscuotere la fiducia dei depositanti e sono per questo vigilate da apposite autorità pubbliche, che tra l’altro impongono loro livelli alti di patrimonio per accrescerne la solidità a beneficio dei depositanti.
 

Dunque le banche sono tutte buone e innocenti? No, spesso commettono peccati, a volte intessono malaffare, e allora è giusto colpire chi lo fa, con sanzioni amministrative, con condanne penali, con la punizione più grave di tutte per un’impresa, la perdita di reputazione nel mercato. Ma non vanno nel loro complesso additate, sulla base di un pregiudizio, come una corporazione nemica della società.
 

Un argomento particolarmente insidioso adoperato da settori della politica e dell’opinione pubblica muove dall’accusa alle banche di concedere poco credito, soprattutto nei confronti delle imprese piccole e delle aree disagiate come il Mezzogiorno, per arrivare e invocare la creazione di banche pubbliche, libere da vincoli di economicità, che badino soltanto a stimolare la crescita dell’economia. Fino agli anni novanta del secolo scorso le banche italiane somigliavano molto a come alcuni vorrebbero che tornassero a essere: degli uffici similministeriali, che fanno credito a pioggia. Poi sono state più o meno privatizzate, semplicemente perché il sistema delle banche pubbliche non funzionava in un’economia moderna, privilegiava i legami politici delle imprese beneficiarie dei prestiti rispetto al loro effettivo merito di credito. La lezione appresa trent’anni fa non dovrebbe mai essere dimenticata.
 

Il governo, le autorità pubbliche, devono preoccuparsi che il sangue circoli bene nel corpo dell’economia, che il mercato bancario sia bene organizzato, che singoli intermediari non commettano imprudenze o illeciti. Questo richiede la razionalità economica in un paese che voglia sviluppare il benessere dei propri cittadini. Ma la razionalità economica non sempre coincide con quella politica.

Di più su questi argomenti: