(foto d'archivio Ansa)

l'analisi

Istituzioni e crescita, il problema dei quattro referendum

Marco Leonardi e Leonzio Rizzo

Le consultazioni referendarie su premierato, autonomia, separazione delle carriere dei magistrati e Jobs Act spaccherebbero il paese non solo tra maggioranza e opposizione, ma tra nord e sud e anche il campo del centrosinistra

Qual è la relazione tra le riforme istituzionali e la crescita economica? In letteratura o indici come il Doing business della Banca Mondiale, tutte le istituzioni che garantiscono la stabilità dei governi (come peraltro l’indipendenza e l’efficienza della giustizia, l’assenza di corruzione etc.) hanno un ruolo importante per la crescita e gli investimenti. Ma questi indici astratti vanno poi valutati nei casi concreti. Una riforma non deve necessariamente blindare una maggioranza: la stabilità dei governi non coincide con la loro capacità ed efficacia decisionale. In passato è capitato che non mancasse una maggioranza parlamentare, ma la volontà della maggioranza di prendere decisioni necessarie ma impopolari. Peraltro il governo Meloni ha una maggioranza assolutamente stabile, per cui non dovrebbe avere urgenza di fare riforme che nell’intento di garantire più stabilità rischiamo invece di produrre l’esatto contrario.

 

Una concreta possibilità è che nei prossimi due anni ci sia un ingorgo di quattro referendum: sul premierato, sulla separazione delle carriere dei magistrati, per  l’abolizione dell’autonomia differenziata e sul Jobs Act. Così  si mette a repentaglio la capacità del paese di concentrarsi sulla crescita e sull’esecuzione del Pnrr. Questi quattro referendum spaccherebbero il paese non solo tra maggioranza e opposizione, ma tra nord e sud e  anche il campo del centrosinistra (separazione delle carriere e Jobs Act sono temi molto controversi tra le opposizioni). 

 

La cosa è tanto più grave perché il referendum del premierato, come  gli altri, avverrebbe in un clima di scontro. Il governo non fa  mistero di ricercare un plebiscito  confermativo senza aver prima ottenuto i due terzi dei voti parlamentari; dall’altro lato l’opposizione, diversamente dal solito, non ha nemmeno depositato un testo in Parlamento per la discussione. Si stanno già preparando i comitati referendari. Prendere il 50 per cento dei voti  sul principio del “presidente del Consiglio eletto dal popolo” senza cercare un confronto in Parlamento sarebbe certamente una questione molto divisiva, perché imporrebbe una nuova forma di governo anche alla metà che non è d’accordo. Anche perché, pur di garantire la stabilità non si garantisce la rappresentanza del Parlamento. Bisogna ricordare, infatti, che allo stato delle cose si andrebbe al referendum senza aver discusso di doppio turno e di legge elettorale. Il governo vorrebbe prima votare il referendum sul premierato e poi decidere in libertà la legge elettorale, ma non è affatto facile decidere una legge elettorale che possa conciliare un premio di maggioranza con l’elezione contestuale del Presidente del Consiglio e del Parlamento. Non per niente, nei sistemi presidenziali o semi presidenziali le due elezioni sono rigorosamente divise, vedi la Francia per cui ora si vota per L’Assemblea ma non per il presidente.
 
D’altra parte l’opposizione, che utilizza come argomento il fatto che non si debbano toccare le prerogative del presidente della Repubblica, usa un argomento sbagliato, perché le prerogative del presidente della Repubblica si sono allargate di fatto in maniera automatica dopo la crisi del partiti nel 1992 e perché comunque qualunque progetto di riforma finisce per toccare le prerogative del Capo dello Stato: la possibilità di nomina e di revoca dei ministri in capo al presidente del Consiglio o la sfiducia costruttiva costituiscono un cambiamento radicale delle competenze del presidente della Repubblica

 

E invece, a ben vedere, c’è molto da riflettere sul fatto che con il premierato si vorrebbe vietare per legge le possibilità dei governi tecnici. Intendiamoci subito, solo un pazzo oggi vorrebbe un governo tecnico invece di un governo politico, ma perché vietare per legge la possibilità che in futuro potremmo aver bisogno di esecutivi con sostegno più largo visto che negli ultimi anni abbiamo avuto governi tecnici, non perché li volevamo per forza, ma perché ne avevamo bisogno per risolvere crisi economiche? Il governo Monti nacque perché c’era da risolvere il problema dello spread e da mettere sotto controllo la spesa pensionistica che nessun governo politico voleva affrontare; il governo Draghi perché c’era da affrontare la campagna di vaccinazioni contro il Covid e daimpostare i 200 miliardi del Pnrr. Non è facile dire quanto le riforme istituzionali influenzino l’economia e viceversa, certamente è poco prudente vietare per legge quella flessibilità delle istituzioni che ci permette di affrontare problemi economici straordinari.

Di più su questi argomenti: