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Nuovi capitali

Assonime e la sua idea di ridisegno dei mercati per evitare un ritorno al passato

Stefano Cingolani

L’Associazione per le società per azioni italiane ha proposto un nuovo assetto per mercati finanziari e governance aziendale, adattando il testo unico alle esigenze moderne. Le proposte includono modifiche alla passivity rule e soglie di OPA, con l’obiettivo di stimolare la crescita

Un nuovo assetto dei mercati finanziari, della governance aziendale, degli equilibri tra proprietà e gestione, tra soci privati e fondi d’investimento, tra famiglie e manager. Vasto programma. Ma l’Assonime non si è intimidita nemmeno davanti a compiti da far tremare i polsi. Così, ha presentato ieri un documento destinato a influenzare il confronto reso più urgente dal recente ddl Capitali. Sono proposte di parte, certamente, ma non solo. L’associazione rappresenta le società per azioni ed è fondamentale, anche per il legislatore e per gli operatori, sapere quali sono le loro esigenze.
 

Il documento ha l’ambizione di rivolgersi non solo agli addetti ai lavori. Il Tuf, Testo unico sulla finanza figlio degli anni ’90 quando le liberalizzazioni e le privatizzazioni hanno scosso un’Italia protezionista, quel progetto al quale hanno lavorato in molti a cominciare da Mario Draghi, oggi viene rimesso in discussione. Un punto chiave è la disciplina dell’offerta pubblica d’acquisto (Opa), strumento principe dell’era reaganiana attraverso il quale veniva scardinato lo status quo, nel bene e nel male. Non è più tempo di liberismo e l’Assonime ne prende atto, anche se non sceglie il protezionismo rampante, ma fa un bagno di realismo.
 

Opa “ostili” non se ne fanno più, scrive il documento e propone di cambiare la passivity rule che impedisce alla società bersaglio di difendersi da scalate esterne, rendendola facoltativa; inoltre l’obbligo di Opa non scatterebbe più con il possesso del 30 per cento di azioni, ma tra il 25 e il 40 per cento, come per le società più piccole. La separazione tra manager e azionisti, dilemma sul quale il capitalismo americano si divide fin dagli anni ’30, è superata dal ruolo attivo dei fondi d’investimento e da un mercato sempre più mondiale. Quel che conta è la governance. E’ questa che va potenziata affinché l’impresa cresca, generi ricchezza e la distribuisca. L’Assonime parte dal riconoscimento che le aziende italiane non vanno abbastanza in borsa, non crescono a sufficienza e quando sono grandi vengono incorporate all’estero. Stellantis, Luxottica, Mediaset, tanto per fare tre nomi eclatanti, lo dimostrano. È possibile impedirlo se cadono le “eccezioni italiane” (esempio chiarissimo il ricorso al gold plating) e se l’ingresso in borsa viene favorito non scoraggiato. Le imprese preferiscono non quotarsi per paura di perdere il controllo, le proposte dell’Assonime cercano di ridurre questa ossessione, intervenendo ad ampio raggio: informazione societaria e assetti proprietari; sistemi di amministrazione e controllo; assemblea; accesso al mercato e passaggi tra mercati; informazione finanziaria e bilancio; corretta applicazione delle norme.
 

La riforma del Tuf è diventata urgente anche perché la legge sui capitali rimanda a una normativa più vasta lo scioglimento di alcuni nodi intricati. Ha fatto discutere l’articolo che rende più difficile per il Cda uscente presentare la propria lista e assegna alle minoranze dei posti in percentuale ai voti ottenuti. L’Assonime lascia che le imprese quotate con almeno l’80 per cento di capitale flottante possano fare eccezione. “Nelle società a proprietà diffusa è venuta meno quella distinzione tra azionisti di maggioranza e azionisti di minoranza, che giustificava la previsione del meccanismo del voto di lista per la nomina degli amministratori e un irrigidimento dell’autonomia statutaria circa le stesse modalità di nomina”. In ogni caso, la scelta va fatta caso per caso in base agli statuti e alle assemblee che potranno essere tenute anche online. Il principio “un’azione un voto” viene rimesso in discussione tenendo conto di nuove priorità: la sostenibilità, il lungo termine, la sicurezza, il golden power che non va tuttavia usato per favorire il protezonismo nazionalista.
 

Semplificare, allinearsi con le migliori pratiche europee e internazionali, un complesso lavoro di pulizia e razionalizzazione per non farsi spiazzare dallo “spirito del tempo”. Senza per questo tornare alle foreste pietrifricate del passato. Attenti alla retorica dei “barbari alle porte”. Demonizzare la scalata Colaninno su Telecom Italia non può nascondere che i cambi di proprietà “consensuali” non hanno certo rafforzato l’azienda. Inoltre ci sono state operazioni di successo condotte da manager e banche d’affari (come Prysmian, la ex Pirelli Cavi), battaglie in assemblea voto su voto (le proxy fights Salini-Impregilo e Elliott-Tim) o discese in campo di imprenditori di riferimento (ultimo Cairo-Rcs), che hanno scosso vecchi equilibri e creato nuove realtà. La stabilità favorisce la crescita, ma anche la rendita di posizione; cambiare proprietà può far bene, anche quando si vende “agli stranieri” che offrono i capitali, la tecnologia, la dimensione che le aziende italiane non hanno. E ci sono molti esempi positivi da Nuovo Pignone a Gucci o Loro Piana. Il Tuf va cambiato, per ampliare il mercato o per ingessarlo?

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