Se Golden Goose non si quota più a Milano non è colpa delle elezioni
L'instabilità politica europea colpisce il lusso: dietro il rinvio, possibili ragioni finanziarie e imprenditoriali. Un duro colpo per Piazza Affari. La versione di Alberto Franceschini Weiss, presidente di AmbroMobiliare
Oggi si sarebbe dovuta quotare alla Borsa di Milano la società Golden Goose. Produce sneakers di lusso o quasi (450 euro al paio, Jimmy Choo, tanto per fare un esempio, vende le sue scarpe considerate di gamma alta a 700 euro). Ha cambiato idea all’ultimo secondo spiegando che “il significativo deterioramento delle condizioni di mercato a seguito delle elezioni del Parlamento europeo e le prossime elezioni in Francia” hanno influenzato negativamente l’andamento del settore del lusso. Insomma, Golden Goose sarebbe stata vittima dell’instabilità politica in Europa dopo il voto del 7 giugno. O, almeno, questo è il messaggio che ha veicolato la società di proprietà del fondo di private equity Permira.
In un primo momento la spiegazione elettorale è apparsa plausibile anche perché non è la prima volta che condizioni avverse di mercato bloccano le ipo in Italia e in Europa – si è visto dopo le Torri Gemelli nel 2001, con la crisi del debito sovrano nel 2011-2012, con la pandemia nel 2020 e tutte le volte, anche in misura minore, che si sono verificate turbolenze che hanno prodotto come effetto un abbassamento dei prezzi e delle valutazioni delle società. Qualcuno, però, ha cominciato a farsi qualche conto considerato anche che la decisione di dare forfait è arrivata due giorni fa quando l’allarme sulle borse per il voto e le turbolenze sui listini di Parigi e Milano si era già affievolito. In più, per ammissione della stessa società, il business di Golden Goose continua ad andare bene. Cosa è successo allora?
In un articolo pubblicato sul sito Italia Informa, Alberto Franceschini Weiss, presidente di AmbroMobiliare, uno dei più noti market advisor del settore delle ipo sul segmento Egm, quello delle piccole imprese, prova a fornire altre possibili spiegazioni che riflettono il tipico modo pragmatico di ragionare dei fondi di private equity (lui, però, parla di pura “avidità”). Il Foglio lo ha contattato per chiedergli come mai non crede alla versione di Golden Goose e se la mancata quotazione possa rappresentare un po’ un guaio per Borsa italiana, i cui dipendenti si preparano al primo sciopero della storia il 27 giugno. “Temo che quello delle elezioni europee sia un alibi – afferma – Premetto che non ho alcun interesse in questa situazione se non quello di capire come mai si è arenata una quotazione che poteva ridare slancio al mercato italiano dei capitali. Questa storia rischia di provocare un ulteriore danno di immagine alla nostra Borsa soprattutto considerando che c’era un importante operatore estero che aveva già prenotato 100 milioni di euro di azioni di Golden Goose”.
Che idea si è fatto? “Dalle informazioni che ho raccolto, le ragioni possono essere due, una più di tipo finanziario e cioè che la valutazione attribuita dagli investitori a Golden Goose nella fase di collocamento sia stata considerata troppo bassa per le loro elevate ambizioni. La seconda, più di tipo imprenditoriale, è che l’andamento delle vendite non stia andando come previsto e che un eventuale risultato deludente del primo semestre avrebbe potuto far tracollare il titolo della società proprio nella fase del suo esordio a Piazza Affari”.
In entrambi i casi, per Franceschini tutta questa storia confermerebbe che per i fondi di private equity la Borsa non è il giusto canale di smobilizzo dei loro investimenti quando detengono la maggioranza oppure la totalità del capitale come nel caso di Golden Goose. Permira, infatti, ha rilevato il produttore di sneakers nel 2023 da un altro fondo di private equity, Carlyle, il quale a sua volta l’aveva acquistata da Ergon Capital Partners III. Quest’ultimo, poi, l’aveva rilevata nel 2015 dai due fondatori, i giovani designer veneziani Francesca Rinaldo e Alessandro Gallo. Dopo questo girotondo tra private equity, la società risulta indebitata per quasi 500 milioni secondo l’ultimo bilancio, cifra superiore al suo fatturato. “I private equity fanno così, comprano le aziende italiane in parte con fondi propri e in parte indebitandole, ma poi la quotazione non riduce quasi mai i debiti, il che ne frena le potenzialità di crescita diversamente da ciò che avviene, per esempio, con le imprese di proprietà dei fondi di venture capital, soprattutto quelli americani. Se parliamo poi di quotazioni, vanno meglio quando il socio di controllo è l’imprenditore che presenta al mercato una propria visione strategica”.
Il ddl Capitali approvato dal governo può migliorare la situazione? “Il decreto va nella giusta direzione ma di capitali non se ne vedono proprio, le nostre imprese avrebbero bisogno di più investitori istituzionali italiani per svilupparsi e approdare in Borsa”.