Alla faccia delle privatizzazioni

I tesori del Tesoro: quanto rende il capitalismo di stato

Stefano Cingolani

Persino il Montepaschi è tornato a fare utili. E Cdp assomiglia sempre di più all’Iri. Ma accanto alle aziende pubbliche che versano miliardi, ci sono quelle che li divorano. Una rassegna

C’era una volta il capitalismo di stato. Sarebbe bello cominciare così. C’era? Una volta? E allora che cosa sono le 3.448 aziende italiane controllate di riffe o di raffe dal governo? Eni, Enel, Leonardo, Poste, Autostrade, Ferrovie, Fincantieri, Snam, Terna, Ansaldo Energia, Saipem, Italgas, Sace, Anas, anche l’Ilva, seconda acciaieria d’Europa, così come il Monte dei Paschi di Siena: tutte nelle mani del Tesoro direttamente o attraverso la Cassa depositi e prestiti. Insieme alle banche, esse dominano la rachitica borsa italiana. Passate le elezioni, Giorgia Meloni deve sciogliere o tagliare alcuni nodi (Ita-Lufthansa, Tim-Kkr e Open Fiber, Autostrade, Montepaschi, solo per citare i più ingarbugliati) e distribuire quasi 700 poltrone dai vertici (Ferrovie, Cdp, Rai, solo per citare le più bollenti) alla base (sono 424 consiglieri e 270 sindaci in 122 società partecipate). Alla faccia delle privatizzazioni. Lo stato padrone è vivo e vegeto; e fa anche buoni affari. Si calcola che quest’anno le aziende pubbliche quotate in borsa verseranno al ministero dell’Economia e a Cdp, i loro azionisti di riferimento, quasi tre miliardi di euro. Da Eni, Enel, Poste arrivano i dividendi maggiori, subito dopo Leonardo. Persino il Montepaschi è tornato all’utile. Liberisti di tutto il mondo, pentitevi: la razza padrona avrà pur fatto del bene a se stessa, ma ha versato fior di quattrini nelle tasche di Pantalone. Il paradosso è che proprio adesso il governo ha deciso di cedere alcuni consistenti pacchetti azionari per far cassa, cioè per ricavare parte dei venti e più miliardi che serviranno a mantenere le promesse elettorali. Secondo i calcoli di molti economisti, il rischio è che il ricavato delle nuove “privatizzazioni” finisca per rimangiarsi gli incassi dovuti ai profitti. Non solo: far cassa oggi può trasformarsi in una rovina domani. Ma torniamo indietro agli anni Novanta.

 

Sono 3.448 le aziende controllate di riffe o di raffe dal governo. Quelle quotate in borsa verseranno al Mef e a Cdp quasi tre miliardi quest’anno

 

Semi e noccioline

 

Nell’estate del 1992, mentre crollava la lira e l’intero sistema politico vacillava sotto la spallata di Mani pulite, il gabinetto di emergenza nazionale guidato da Giuliano Amato decise di avviare un processo di privatizzazione più ampio persino di quello britannico nell’èra Thatcher. Una partita che frutterà circa cento miliardi di euro. I quattro enti pubblici, Iri, Eni, Enel, Efim, divennero per decreto società per azioni, mentre il Tesoro doveva presentare entro tre mesi un programma di riordino e privatizzazioni. I quattro partiti che sostenevano il governo (Dc, Psi, Psdi, Pli) erano sostanzialmente contrari. Per uscire dall’impasse Amato salì le scale del Quirinale e si rivolse al presidente Scalfaro il quale gli disse di non mollare. Il passo più grande fu la privatizzazione dell’Eni che nell’insieme ha portato nelle casse dello stato 29 miliardi di euro. L’Enel ha fruttato 34 miliardi nell’arco di dieci anni. Poi via via è toccato a tutte le altre. E’ andata male per Telecom, per l’Ilva, per l’Ansaldo, per le Autostrade, ma attenti a gettare il bambino con l’acqua sporca.
Il sogno di creare un nuovo capitalismo italiano non si è realizzato, sottolinea Edoardo Reviglio, docente alla Luiss, già capo economista della Cassa depositi e prestiti. Tuttavia, “dopo tante discussioni su public company o nocciolo duro, il controllo dello stato con un’ampia e frazionata base azionaria privata sembra essere emerso come un buon modello”. La caduta delle grandi aziende di famiglia ha lasciato un vuoto riempito in parte dagli investimenti esteri, come dimostra Fulvio Coltorti che ha guidato per quarant’anni l’area studi di Mediobanca e ora insegna alla Cattolica di Milano. Si può dire che il primo capitalismo protagonista del miracolo economico con il suo mélange di fondatori (Agnelli, Pirelli, Marzotto, Pesenti, Olivetti) e ricostruttori (Lucchini, Arvedi, Merloni e tutti gli altri) si è estinto a favore del terzo capitalismo (quello delle piccole imprese e poi dei distretti raccontato da Giuseppe De Rita, da Giorgio Fuà, da Giacomo Becattini). Alla svolta del nuovo secolo è emerso il quarto capitalismo che ora sta andando oltre se stesso verso una nuova dimensione, come spiega Franco Amatori, professore di Storia economica alla Bocconi. Il secondo capitalismo, cioè il capitalismo di stato, invece, è rimasto stabile, ma la sua tenuta è frutto di un cambiamento spesso ignorato: l’apertura al mercato che ha esercitato la sua funzione disciplinatrice.

 

Negli anni 90 il passo più grande fu la privatizzazione dell’Eni che nell’insieme ha portato nelle casse dello stato 29 miliardi di euro


Il triangolo della cassa


Il ministero delle Partecipazioni statali è stato abolito nel 1993, dalle sue ceneri è emerso un triangolo che non sempre si chiude. Al vertice c’è il Tesoro, alla sua destra Cdp, alla sinistra il mercato, impersonato dai fondi e dalle banche. Ma negli ultimi anni la Cassa ha allargato il suo spazio. Nata nell’Ottocento sul modello francese per finanziare gli enti locali raccogliendo il risparmio postale e gestire il conto del Tesoro, Cdp s’è trasformata in una holding di partecipazioni sempre più vicina alla vecchia Iri anche perché sono entrate imprese incapaci di camminare solo con le proprie gambe. Fa gola il suo attivo di 469 miliardi di euro con un patrimonio di circa 40 miliardi, un utile di 1,8 miliardi (ultimi dati ufficiali del primo semestre 2023). Dal 2003 è controllata dal Tesoro (prima con il 70 per cento, ora con l’83) e da 65 fondazioni di origine bancaria, grazie alla svolta compiuta da Giulio Tremonti ministro dell’Economia e da Giuseppe Guzzetti, leader riconosciuto delle fondazioni, che ha consentito di far uscire dal perimetro del debito pubblico oltre 400 miliardi di euro. 
“La nuova Cassa sembra talvolta come la famiglia Bentivoglio che nella Bologna del ’400 teneva i sacchetti di monete d’oro in mostra davanti al suo palazzo, per dimostrare che i danari li aveva, pronti per ogni evenienza”, racconta Reviglio. Negli ultimi vent’anni – prosegue – è stata utilizzata per una gran quantità di scelte che solo in parte rientrano nel suo mandato originario, soprattutto ampliando le partecipazioni azionarie che fanno capo a Cdp Equity. E’ azionista di maggioranza del Fondo italiano d’investimento, gestisce direttamente fondi specialistici per alimentare le piccole e medie imprese. Con oltre 600 società in portafoglio, è il più grande investitore istituzionale in Italia. La holding tiene in cassaforte i pacchetti di 23 società: Fincantieri, Autostrade, Ansaldo energia, Webuild, Open Fiber, Trevi, Hotelturist, il Polo strategico nazionale, solo per citare le principali. Terna, Snam, Italgas sono controllate dalla società delle reti dove la cinese State Grid ha il 35 per cento. Il gruppo Cdp poi controlla direttamente l’Eni e le Poste. Dario Scannapieco, arrivato nel 2021 dalla Banca europea per gli investimenti, ha cercato di mettere ordine e fare pulizia, cedendo quote in Kedrion, Fsi sgr, Quattror sgr, Inalca, Bonifiche Ferraresi, Rocco Forte Hotel, è rientrato così oltre un miliardo di euro, tuttavia le aziende esposte alla competizione internazionale, sono in difficoltà.

 

Elettricità con Terna, distribuzione del gas con Snam e Italgas, settori di pubblica utilità e municipalizzate: fanno gola anche ai cinesi


La Saipem forte della ricerca petrolifera, ma insidiata da potenti concorrenti, è in ripresa, sono aumentati gli ordini per le infrastrutture di petrolio e gas, il titolo in borsa è salito del 30 per cento. Ansaldo Energia ha lavori per tutto l’anno, ha stipulato un accordo con Enel per centrali nucleari di nuova generazione e un promettente contratto con il Kazakistan. Il 2022 si è chiuso in rosso per mezzo miliardo di euro e nel giugno scorso ha aumentato il capitale con 580 milioni per coprire la perdita. In Valvitalia (valvole, gas e sistemi antincendio) travolta da pandemia e inflazione (nel 2022 una perdita di 23 milioni su ricavi per 113 milioni di euro), Cdp è entrata a gennaio scommettendo sul rilancio di un’azienda multinazionale in un settore chiave. Nella Trevi si tratta non solo di ripianare le perdite, ma di sostenere una società di costruzioni. La priorità assoluta è sistemare Open Fiber, come vedremo.
Cdp ha bisogno di un tagliando? Intanto, bisogna assicurarsi che non diventi lo strumento dei salvataggi industriali. Il primo scudo è nello statuto della Cassa che deve preservare il denaro di 20 milioni di piccoli risparmiatori postali e non può intervenire in società che non hanno prospettive di mercato. Una legge potrebbe cambiare tutto, ma allora interverrebbe la Ue che disciplina gli aiuti di stato. Cdp non è una banca, quindi sfugge alle regole della Bce sulla dotazione di capitale, tuttavia il suo patrimonio un tempo concepito per attività a basso rischio oggi è impegnato in ben altre operazioni, ciò vuol dire che ci sarà bisogno che il governo aumenti il suo capitale per metterla al sicuro. La Cassa, calcola Reviglio, opera con una leva complessiva (cioè il valore totale delle attività diviso il patrimonio) pari a 16 volte, la Banca europea degli investimenti è a 7,5. Ciò vuol dire che il livello di rischio della Cassa è elevato e va tenuto sotto controllo. 

 

Con oltre 600 società in portafoglio, Cdp è il più grande investitore istituzionale in Italia. La holding tiene in cassaforte i pacchetti di 23 società

 

Dal ministero alla borsa

 

Siamo nell’autunno del 1998, si è da poco insediato il governo D’Alema, il primo guidato da un ex comunista. A palazzo Chigi “l’unica merchant bank dove non si parla inglese”, secondo la velenosa battuta di Guido Rossi, grande avvocato e padre dell’antitrust italiano, si riuniscono D’Alema, il ministro dell’Economia Carlo Azeglio Ciampi e il direttore generale del Tesoro Mario Draghi. L’obiettivo è mettere ordine nel tumultuoso processo delle privatizzazioni. Il cruccio principale riguarda la sorte di Telecom Italia guidata da quello che D’Alema chiama “il nocciolino duro”, e rimasta da nove mesi senza capo azienda, dopo le dimissioni a catena degli amministratori delegati, ben quattro in un anno. In quella riunione viene tracciata una linea rossa tra le aziende ritenute strategiche nelle quali lo stato doveva mantenere il controllo e quelle da lasciare al gioco del mercato, a cominciare da Telecom. Pochi mesi dopo, il 20 febbraio 1999 la Olivetti guidata da Roberto Colaninno lancia un’offerta pubblica di scambio, non concordata, da 102 mila miliardi di lire, circa 50 miliardi di euro. Per Eni, Enel, Finmeccanica, Saipem, Ansaldo, Fincantieri e le altre “strategiche” si studia un complicato meccanismo che renda comunque arbitro il governo al quale spetta nominare i vertici aziendali. 
Eni oggi è controllata dal ministero dell’Economia (il 4,3 per cento direttamente e il 25,9 attraverso Cdp, per una partecipazione totale del 30,3 per cento). A sua volta, è il primo azionista di Saipem (ora ha deciso di scendere dal 30 al 20 per cento) mentre Cdp detiene il 12,5 per cento del capitale. La società fondata da Enrico Mattei nasce come una classica compagnia petrolifera. Il suo bilancio (ricavi di 93,717 miliardi l’anno scorso con un utile di 13,800 miliardi e un indebitamento di 16,235 miliardi) dipende ampiamente dal prezzo del greggio, tuttavia cresce grazie alle esplorazioni ed è una società tecnologicamente avanzata. La posizione finanziaria è robusta con forti flussi di cassa in entrata, una leva del 20 per cento e quindi un debito basso. Un asso nella manica è il supercomputer di Bologna capace di fare 70 miliardi di operazioni matematiche al secondo (High Performance Computer), unica major petrolifera ad averlo che le consente di avere una vasta conoscenza sulle riserve mondiali di idrocarburi. Il capo azienda Claudio Descalzi, in sella dal 2014, ha dovuto superare lo choc derivato dall’invasione putiniana dell’Ucraina e ha brillantemente risolto il disincaglio dal ricatto del gas russo. Ora deve affrontare la sfida della decarbonizzazione. Il piano strategico ha dato il 2050 come obiettivo carbon free, l’Eni si sta impegnando nell’idrogeno blu estratto dall’acqua, nel nucleare con la fusione magnetica, nell’eolico, nel solare, nell’energia dalle onde. In borsa capitalizza 46 miliardi di euro. Il titolo è salito dal minimo di 6 euro per azione durante la pandemia a 14 euro, ma vale meno di quanto potrebbe. Pesa ancora l’incognita del contratto con Gazprom che risale al 1969 ed è ancora in piedi nonostante sia stato rinegoziato più volte?
Il modello ibrido stato-mercato vale anche per l’Enel controllata con il 23,6 per cento direttamente dal Tesoro perché Cdp ha in portafoglio le società della distribuzione (Terna, Snam, Italgas) e per l’antitrust non può possedere anche chi produce energia. L’ex ente elettrico vale in borsa 67 miliardi di euro, ma dopo un vero e proprio boom postpandemico che ha portato la quotazione oltre 8 euro, ha subito un forte calo fino a 4 euro, la successiva ripresa si è fermata a 6 euro, intanto sono cambiati i vertici: il governo Meloni ha nominato Paolo Scaroni presidente e Flavio Cattaneo amministratore delegato. L’Enel è la prima utility integrata d’Europa, una vera multinazionale delle energie rinnovabili, ma la nuova leadership pensa che sia troppo estera, troppo esposta verso sole e vento, troppo indebitata (ben 60 miliardi di euro con ricavi di 95 miliardi scesi del 32 per cento l’anno scorso). In gran parte è una conseguenza della costosa acquisizione della spagnola Endesa nel lontano 2006, ma crescono le critiche verso una espansione considerata troppo costosa. La nuova metamorfosi, dunque, è all’insegna di un progressivo ritorno a casa. L’Enel ha impiegato molto tempo per assorbire il no al nucleare del quale era la vera roccaforte. Sotto la guida di Franco Tatò ha puntato sui telefoni con Wind. Poi nel 2000 è arrivato il decreto che imponeva un limite massimo del 50 per cento alla produzione di energia in Italia. La gestione di Francesco Starace compie la svolta verde. Enel Green Power si è affermata come uno dei principali player mondiali nel settore delle rinnovabili. Scaroni quando era ancora all’Eni si chiedeva se “eravamo ubriachi” per aver speso “in modo dissennato nelle rinnovabili”. Ora l’Enel conferma gli investimenti in solare ed eolico, tuttavia s’impegnerà molto sull’energia dall’atomo, non solo la fusione, ma i mini reattori modulari sui quali lavora anche Ansaldo energia e che piacciono molto al governo. Una strategia costosa, con quel po’ po’ di debito c’è da scommettere che vendite e tagli saranno all’ordine del giorno. Le metamorfosi non finiscono mai. 
Anche Leonardo è frutto di una mutazione tutt’altro che superficiale. Nasce dalla vecchia Finmeccanica, holding che andava dall’Aeritalia all’Ansaldo fino all’Alfa Romeo. Fabiano Fabiani punta sull’elettronica con acquisizioni anche all’estero e vende aziende come l’Alfa (alla Fiat). Nel 1998 arrivano dall’Efim le aziende della difesa comprese l’Agusta (elicotteri), la Oto Melara (cannoni), i radar e tutto il resto. Sotto la guida di Pier Francesco Guarguaglini proprio il militare diventa il fulcro di tutte le attività, tanto che vengono vendute l’Ansaldo e la Breda (alla giapponese Hitachi), l’Ansaldo energia e il 50 per cento italiano della Stm (microchips) a Cdp. Con Alessandro Profumo al vertice, la difesa si sposa con il digitale e vengono sistemati i conti. L’anno scorso per l’amministratore delegato Roberto Cingolani è stato un vero boom, la guerra in Ucraina ha spinto il fatturato che viaggia verso i 17 miliardi in base agli ordini già ricevuti mentre in borsa la quotazione è più che raddoppiata in dodici mesi. Il cambio di nome, dunque, non è stato un maquillage. Leonardo è la prima azienda italiana per investimenti in ricerca e sviluppo, il supercomputer Davinci-1 è il terzo mondo dopo quelli della Nasa e della giapponese Jaxa. Con la guerra in Ucraina, le aziende pubbliche che non fanno più burro debbono produrre più cannoni. 

 

Leonardo è la prima azienda italiana per investimenti in ricerca e sviluppo, il supercomputer Davinci-1 è il terzo al mondo


Le Poste lumaca sono ormai un ricordo. Il governo di Romano Prodi nel 1998  trasforma l’azienda in società per azioni e l’affida a Corrado Passera che la rovescia come un guanto. Nel 2015 c’è la quotazione in borsa con Cdp che prende il 35 per cento, il ministero dell’economia il 29,6 per cento e il resto va sul mercato. Vedremo presto quanto cambieranno questi equilibri se ci sarà la vendita di un pacchetto azionario. Con Massimo Sarmi che resta alla guida per 12 anni, arrivano Postepay, il Bancoposta, lo Spid, il telefonino. Il salto tra finanza e digitale paga, il successore Matteo Del Fante spinge l’acceleratore e si allarga alla logistica con un accordo con Amazon. I ricavi sono ormai attorno a 150 miliardi di euro e gli utili superano i due miliardi tanti quanti ne perdeva nel 1990. Lo stato, dunque, ci guadagna, lo stesso chi compra le azioni. 

 

Enel è la prima utility integrata d’Europa, una vera multinazionale delle energie rinnovabili, ma la nuova leadership pensa che sia troppo estera


I buchi nelle reti

 

Elettricità con Terna, distribuzione del gas con Snam e Italgas, settori di pubblica utilità e municipalizzate: le grandi reti e le utilities vengono sistemate nelle mani di Cdp (le prime tre) e del fondo F2i. I rischi sono pochi, le tariffe regolate dal governo consentono un costante flusso di cassa, più sicuro e ricco di quello dei supermercati. L’assetto fa gola anche ai cinesi che con la State Grid nel 2014 entrano nella società delle reti con 2,1 miliardi di euro per il 35 per cento del capitale. E lì restano. L’anno scorso hanno incassato 116 milioni di euro. E’ una delle falle nell’assetto dei settori strategici e per ora il governo non ha intenzione di colmarla. C’è poi la rete autostradale. Acquisita pagando 8,2 miliardi di euro con un guadagno secco di 5,2 miliardi per i Benetton (brillante operazione targata cinquestelle dopo il crollo del ponte Morandi), l’Aspi fa capo a Cdp per il 51 per cento e il resto diviso tra i fondi Blackstone e Macquarie. Il riassetto lascia aperti molti interrogativi, il primo è che sulla Cassa dovrà pesare il grosso degli investimenti che si prevede ammontino a 21,5 miliardi di euro secondo il piano triennale. Difficile che non intervengano novità anche nell’assetto azionario.
Ma il grande buco è proprio nella rete digitale in mano a Telecom Italia (oggi Tim). A gennaio il governo ha sancito la vendita al fondo americano Kkr. A maggio l’Unione europea ha dato il via libera. Ma continua a resistere il principale azionista, cioè Vivendi che fa capo a Vincent Bolloré. Tra tira e molla tutto è ancora da definire. Intanto però peggiorano sempre più i conti di Open Fiber, la società nata nel 2017 sotto la spinta del governo Renzi, controllata allora dall’Enel e da Cdp. L’azienda elettrica si ritira tre anni fa, la Cassa sale al 60 per cento ed entra il fondo Macquarie. L’ipotesi di rete (quasi) unica prevede che il prossimo passo sia fonderla con quella in fibra ottica e Cdp che possiede anche il 10 per cento di Tim avrà un ruolo chiave. Con Open Fiber sono in ballo investimenti per 13 miliardi di euro, ma le opere vanno a rilento impantanate nella giungla dei divieti e dei permessi, ostacolate dalla mancanza di un catasto aggiornato, con in più l’incognita di non sapere se ci sarà il ritorno economico dell’investimento là dove non esistono aree industriali e l’utilizzo della rete è modesto, spesso sporadico. I bandi lanciati nel 2019 non sono più attuali, non solo per l’aumento dei costi, ma anche per l’estensione nella posa dei cavi. Tanto che le banche hanno sospeso i prestiti ed è cominciato un negoziato attorno a un pacchetto di oltre otto miliardi di euro. 

 

Con Open Fiber sono in ballo investimenti per 13 miliardi di euro, ma le opere vanno a rilento impantanate nella giungla dei divieti e dei permessi

 

Il modello ibrido stato-mercato funziona per Eni ed Enel, le Poste lumaca sono un ricordo. Ma c’è il buco di Telecom, e i conti di Open Fiber vanno male

 

Imprese in corsia

 

I liberisti non mollano: ma quale stato imprenditore, stato ospedale. Alitalia, Montepaschi, Ilva, sui lettini ce ne sono di malati eccellenti in attesa di cure. I contribuenti hanno speso una fortuna. Per Alitalia si superano i 13 miliardi tra aumenti di capitale e contributi vari. Le soluzioni, rivelatesi tutte precarie, non si contano, tra capitali coraggiosi, banche, emiri, compagnie straniere (Air France Klm). Adesso sembra fatta con Lufthansa, dopo una faticosa trattativa con l’antitrust europeo sugli scali nazionali e internazionali. Il governo manterrà per ora il 59 per cento, poi ridurrà progressivamente la sua quota e uscirà del tutto da Ita Airways solo nel 2033. Il Tesoro ha versato 1,35 miliardi di euro nel 2021, Lufthansa pagherà 325 milioni nel terzo trimestre di quest’anno e 425 milioni tra il 2025 e il 2027. Incrociamo le dita. Per la banca Mps si cerca un compratore che non c’è, ci hanno provato in tanti, ultimo Draghi con Unicredit, nel frattempo i conti sono migliorati, ma la vendita è inevitabile anche perché c’è un impegno con la Ue. Per l’acciaieria di Taranto, lo stato nel 2020 ha stanziato 680 milioni di euro come prestito ponte convertibile per pagare i debiti energetici con Eni e Snam, e rimettere in moto alcune attività. Nel bilancio dello stato c’è poi a disposizione l’ulteriore miliardo di euro stanziato da Mario Draghi. Il governo Meloni attende il momento opportuno per far salire lo stato in maggioranza, ma nessuno pensa che, una volta pagato l’addio al gruppo indiano Arcelor, possa nascere un nuovo Oscar Sinigaglia per sistemare la grande siderurgia italiana, quella degli altiforni e delle colate a caldo, quella della quale oggi c’è ancor più bisogno per fare non solo automobili, ma carri armati. Nel frattempo a Taranto va in scena il bellum omnium contra omnes, però a differenza di quel che sosteneva Hobbes non c’è nessun Leviatano in grado di imporre la pace. 
Siamo partiti con il conto degli incassi che le aziende pubbliche hanno versato al Tesoro. Poi, allargando la nostra rassegna abbiamo scoperto che di falle ce ne sono ancora tante. E’ diventata prevalente l’idea di aumentare il peso dello stato e tornare alla politica industriale, cioè affidare al governo le strategie delle imprese, intanto le missioni si arricchiscono di nuovi imperativi come la sicurezza militare o la doppia competizione con gli Usa e con la Cina. Il primato della geopolitica davvero funzionerà? Secondo Franco Bernabè, che ha gestito le trasformazioni dell’Eni e di Telecom, la chiave di tutto è la governance: “Lo stato può detenere partecipazioni se rispetta la logica di mercato e non entra nel merito delle scelte”. Alle Poste nessuno ha detto dove e come diversificare la propria attività ed è stato un successo. “Decenni di studi e la conoscenza di centinaia di storie d’impresa – spiega Franco Amatori – mi hanno convinto che l’unica missione che si può attribuire a una grande azienda sia quella di competere sul mercato. Sono lezioni della storia che difficilmente possono essere eluse. Le imprese, anche quelle pubbliche, operano sul mercato, il quale, come è noto, è cinico e baro. Dobbiamo concedere loro una libertà fondamentale nel capitalismo, quella di fallire”.

 

“Le imprese, anche quelle pubbliche, operano sul mercato”, perciò dobbiamo concedere loro una libertà fondamentale, “quella di fallire”

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