Foto via Getty Images

L'evento

Appunti per le imprese smart d'Italia alla prova dell'IA

Stefano Cingolani

Solo il 15 per cento delle aziende italiane ha completato il trasferimento al digitale, le altre sono bloccate. L'Italia ha investito molto in smart factories, ma i risultati sono scarsi. Ecco i pilastri su cui deve poggiare l’innovazione (e i suoi limiti)

Crespellano (Bo). Dietro le spalle si sente una voce, anzi poco più di un sibilo: “Dice bene lui. Abbiamo comprato le nuove macchine, ma le altre, quelle che non abbiamo ancora ammortizzato e funzionano bene? Non possiamo gettarle nella spazzatura”. A bofonchiare perplesso è il manager di una multinazionale specializzata in energia e innovazione. Non facciamo nomi perché non siamo autorizzati, ma il suo stato d’animo non si può non registrare. Il “lui” è un consulente che insegna anche all’università e possiamo citarlo perché ha parlato senza veli: si chiama Luigi Manca, ingegnere informatico della società Engineering esperto in intelligenza artificiale. Ha appena spiegato il “dilemma del pilota”: in Italia solo il 15 per cento delle aziende ha completato il trasferimento al digitale, tutte le altre si sono fermate al pilota. Fuor di metafora, si sono bloccate nel momento di passare dall’acquisizione delle tecnologie alla loro applicazione produttiva. Giovanni Notarnicola, partner di Porsche Consulting, sottolinea che l’Italia è il secondo paese europeo dopo la Germania ad aver investito in quella che viene chiamata smart factory. Si tratta di cinque miliardi di euro, un quinto di tutte le spese equivalenti fatte in Europa (la Germania ha stanziato 9,8 miliardi, la Spagna 2,6, dati del 2021). Eppure il Bel Paese si colloca al posto numero 25 in termini di efficienza (prima l’Irlanda, ultima la Grecia). È un altro modo per declinare il dilemma del pilota.
  

Siamo a un seminario organizzato da Porsche Consulting il cui ufficio italiano è guidato da Josef Nierling, e dalla Philip Morris Manufacturing & Technology, in questa località nel bel mezzo della pianura emiliana arrostita dalla calura, è un giorno di quelli che arrivano in estate al di qua e al di là del Po e hanno pochi paragoni in Europa. Qui il colosso americano del tabacco ha costruito la sua fabbrica delle meraviglie. Prima c’era una casa cantoniera abbandonata, poi è stata ristrutturata e adesso serve alle riunioni dei dirigenti nello stabilimento iper automatizzato che guida il cammino “verso un futuro libero dal fumo” (è questo il mantra), e contribuisce alla evoluzione di altri 40 impianti nel resto del mondo. In pratica si producono gli Iqos, le svaporelle, o meglio i piccoli stick dentro i quali si riscalda il tabacco trattato per ridurre la nicotina e i suoi effetti peggiori. Una innovazione che ha salvato e rilanciato la genitrice della Marlboro. Ma detto così è come non spiegare tutto ciò che di ricerca e manifattura moderna c’è dietro, con l’ambizione di diventare addirittura un modello per altre imprese. 
 

All’incontro partecipano i manager operativi di quello che può essere definito il fior fiore della manifattura, aziende italiane e internazionali di quasi tutti i settori. Qualche nome per capire (senza per questo sminuire gli altri): Abb, Angelini, Barilla, Campari, Coesia, Ferrero, Fincantieri, Gsk (GlaxoSmithKlein), Leonardo, Schneider, STMicroelectronics e via di questo passo. L’intervento d’apertura con il suo classico supporto di slide, è intitolato all’inglese: “La smart factory è morta, viva la smart factory”. Il divario tra investimenti e risultati coincide con la contraddizione insita in tutti gli incentivi pubblici che puntano sul fatturato più che sul valore aggiunto. L’Italia ha speso molto grazie al sostegno di Industria 4.0 che di per sé ha funzionato. Non si tratta di gettarla alle ortiche, dunque; al contrario, va rinnovata e rilanciata facendo tesoro di errori e omissioni. E a farne tesoro debbono essere le imprese come e forse ancor più dei governi.
 

Il parco macchine di per sé non è sufficiente, l’innovazione ha bisogno di “tre pilastri” spiega Notarnicola: la strategia che viene prima di ogni altra cosa, il cambio di paradigma e l’affidabilità finanziaria. “Non basta mettere un robot, la tecnologia non è la soluzione è il supporto della strategia”, rilancia Matteo Zompa direttore della manifattura alla Philip Morris International. “Non prima la tecnica poi l’uomo, tutto il contrario” e si diffonde in questo nuovo umanesimo tecnologico. La stessa tecnologia non deve essere uno strumento per copiare e imitare i gesti umani, così diventa una versione più sofisticata degli antichi utensili. Ci vuole un processo olistico. Ecco, questa è la parola magica che attraversa l’intero seminario: aborrita è l’abusata resilienza, ridimensionato anche l’aggettivo smart ora che tutto sembra diventato smart pur restando sempre lo stesso. La Philip Morris ha utilizzato questo approccio olistico, spiega Roberto Minella della società FlexLink che fornisce macchinari automatici e soluzioni industriali. Ed ecco i risultati: costo del lavoro meno 20 per cento; uso dello spazio più 15 per cento; tempo meno 30 per cento; variabilità del ciclo produttivo meno 25 per cento; nell’insieme un rendimento superiore del 23 per cento. Secondo lo schema tradizionale, per aumentare l’efficienza si aggravano i carichi di lavoro, mentre le macchine servono a ridurre gli occupati per unità di prodotto. La Philip Morris invece continua ad assumere (a Crespellano lavorano per ora 2.500 persone). L’intelligenza artificiale si inserisce in questo modello, se usata bene. Cioè come? In una giornata che non ha risparmiato definizioni e neologismi, entra in campo l’agentic. È una fusione dall’inglese agent-like ed esprime la teoria secondo cui gli individui diventano produttori e anche prodotti di se stessi. Agentic AI è la frontiera che consente di adattare l’intelligenza artificiale rendendola flessibile e capace di realizzare autonomamente compiti complessi sotto la diretta supervisione umana. Si aprono nuovi orizzonti capaci di cambiare il lavoro e l’impiego. Ad esempio, perché andare in pensione tanto presto e languire per vent’anni almeno? Pensiamo solo a quale contributo può dare l’esperienza, quello che Kent Anderson, ex Microsoft, chiama “incapsulare le competenze”.
 

Torniamo con i piedi per terra: cosa manca all’Italia? Non i capitali anche se c’è sempre bisogno di più risorse, non gli incentivi pubblici che pure vanno ricalibrati (troppo spesso si sono presi i soldi senza sapere bene che cosa farne). Talvolta scarseggia il coraggio di rischiare fino in fondo, perché l’incertezza regna sovrana tra gli imprenditori e tra i manager. Ma l’investimento fondamentale va fatto nel capitale umano, usando l’intelligenza artificiale per potenziare l’intelligenza naturale. Lo si dice da tempo, eppure in Italia le parole sovrastano ancora i fatti.