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La sfida decisiva

L'educazione attraversa una crisi silenziosa. Intervista a Laura Frigenti

Davide Perillo

La direttrice generale di Global Partnership for Education (Gpe), organismo internazionale che collabora alla formazione dei sistemi educativi di una novantina di paesi, ci racconta le sfide dell'istruzione alla vigilia del G7 di Trieste

"Tempo fa ero in Salvador. Avevamo un progetto per l’educazione delle ragazze, e visitavo le scuole. A un certo punto entro in una classe e mi fanno vedere i disegni dei bambini. La maestra aveva chiesto di rappresentare che cosa fosse la scuola per loro. E una bimba di sei anni, minuta, molto sveglia, aveva disegnato una farfalla. Le ho chiesto perché. E lei: “Quando vengo a scuola, sono felice. Qui sogno e costruisco il mio futuro”. Mi ha commosso. Perché in fondo è questo che ti offre la scuola: ti apre la testa e ti fa sognare, ma ti dà pure la possibilità di diventare il meglio che puoi diventare”. Laura Frigenti, 66 anni, un passato tra World Bank e Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo (l’ha diretta dal 2016 al 2018), oggi è direttrice generale di Global Partnership for Education (Gpe), organismo internazionale che collabora alla formazione dei sistemi educativi di una novantina di paesi. È una delle voci “non politiche” che parleranno a Trieste, dove dal 27 al 29 giugno si tiene il G7 dell’educazione.

Sessione ministeriale, guida Giuseppe Valditara, all’ordine del giorno la scuola del futuro. Ma anche il Piano Mattei, l’Africa e quel pezzo di mondo perennemente “in via di sviluppo” in cui l’educazione è una partita decisiva. E dove Gpe nel 2023 ha collaborato a 84 progetti (valore complessivo: oltre 2,5 miliardi di dollari), a distribuire 48 milioni di libri di testo, a formare 481 mila insegnanti e costruire o ristrutturare 6.700 aule scolastiche.
Che cosa porterà al G7? “Tre messaggi principali. Uno: attenzione, perché l’educazione sta attraversando una crisi silenziosa. Dopo il  Covid, in cui milioni di bambini sono rimasti fuori dalle scuole anche per tre anni, siamo tornati indietro. Soprattutto per le ragazze. In tanti paesi quando le ragazze non sono a scuola si prospetta un avvenire di matrimoni precoci, problemi di salute, opportunità negate. Troppe volte la scuola è l’anello mancante dei discorsi sullo sviluppo”.

Ma perché si fa così fatica a capire che l’educazione è decisiva? “L’agenda dello sviluppo è sempre segnata dalle emergenze, invece l’educazione è un investimento a lungo termine. Per vederne i benefici, hai bisogno di un processo che dura 10-12 anni per bambino, moltiplicato per generazioni. La politica difficilmente ha la pazienza di aspettare”. C’è un nesso diretto tra educazione e pace? “Lo dicono gli studi. Abbiamo appena pubblicato una ricerca assieme all’Institute for Economics and Peace di Sydney che dà risultati evidenti. I paesi che hanno investito di più nell’educazione sono quelli che hanno più stabilità”. E viceversa. “Appunto. L’Africa occidentale. Vive un momento difficile, con un aumento di focolai di guerra. Ma che futuro hanno davanti i ragazzi del Niger, o della Nigeria settentrionale, che poi scelgono Boko Haram? Niente: nessuno sbocco, zero opportunità. E’ normale che si aggrappino a quello che pensano possa essere un game changer. Se avessero prospettive diverse, non vedremmo i numeri che vediamo ora. E forse non vedremmo nemmeno questo senso evidente di rifiuto della cultura occidentale e di tutto quello che noi rappresentiamo”. 
In vent’anni avete aiutato ad andare a scuola 160 milioni di bambini, le ragazze che studiano sono raddoppiate. Come lavorate? “Abbiamo cambiato metodo. Prima era più standard: identificavamo dei buoni progetti e intorno a questi organizzavamo i finanziamenti. Benissimo. Ma in realtà complesse come l’Africa devi affrontare anche i problemi macro. E quindi ora collaboriamo direttamente con i governi, aiutandoli a sviluppare il sistema. Poi cerchiamo di far ragionare i politici sulle scelte strategiche, che permettono un salto di qualità”.

Esempi? “Di recente parlavo con il ministro dell’Educazione di un paese africano. Mi ha detto: ‘Vorremmo costruire 50 scuole d’élite, perché la Pubblica amministrazione ha bisogno di personale qualificato. Se lo stato non funziona, non funziona nulla’. Giusto. Però gli ho fatto presente che con la stessa cifra, possono portare a scuola tre milioni di bambini che non ci vanno”. Com’è finita? “Hanno scelto la seconda strada…”.
Che idea si è fatta del Piano Mattei? “Non ho ancora letto bene i documenti; però mi sembra che la filosofia di avere con quei paesi un rapporto meno paternalistico e più ‘da pari’ sia una cosa giustissima. La popolazione africana da qui al 2050 raddoppierà: o ci sbrighiamo, o raddoppieranno anche le crisi. E poi, se lo sviluppo non arriva anche lì, le divisioni aumentano”. Ottimista o pessimista? “Ai colleghi, l’altro giorno, citavo Golda Meir: il pessimismo è un lusso che non ci possiamo concedere. Nel tempo, ho imparato a non scoraggiarmi”. 

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