gap territoriali
Perché i divari del sud hanno poco a che fare con il tema dell'autonomia
L'approvazione parlamentare del ddl Calderoli ha riaperto l'eterno dibattito sul gap socioeconomico tra le due aree territoriali del nostro paese. Ma ci sono anche studi qualitativi, come quello della Banca d'Italia
Qualche giorno fa il Parlamento ha approvato definitivamente il disegno di legge Calderoli sulla cosiddetta autonomia differenziata delle Regioni. E’ sembrata a molti una rivoluzione, da osannare o da maledire a seconda dei convincimenti di ciascuno. In realtà, come ha magistralmente chiarito il prof. Clarich su Milano Finanza il 22 giugno scorso, si è fatto tanto rumore per (quasi) nulla. Il ddl Calderoli è semplicemente la legge attuativa, a stretto rigore non necessaria, di principi costituzionali introdotti ben ventitré anni fa, quando fu riformato il titolo V della Costituzione. Il ddl rende l’applicazione di quei principi, già possibile, semmai più difficile di prima, non più facile, stabilendo una procedura molto complessa e piena di cautele e paletti per una regione che chieda di ottenere qualche facoltà in più.
Si sa, temi politicamente così caldi ben si prestano a spericolate acrobazie propagandistiche da parte di tutti gli schieramenti, dirette a eccitare le rispettive tifoserie, non ce ne meravigliamo troppo. Il punto di sostanza rimane: in un paese come l’Italia c’è bisogno di più o di meno autonomia locale? La Carta del 1946 ne prescrisse una dose abbondante, anche se la previsione costituzionale rimase sostanzialmente inattuata fino alla legge istitutiva delle regioni del 1970. La revisione costituzionale del 2001 sancì per sovrammercato che l’autonomia dallo Stato centrale poteva essere differenziata da regione a Regione. Dunque la suprema legge della repubblica ha risolto la questione già molti anni fa. La questione è resa però sempre attuale dal permanere, anzi dall’aggravarsi, del divario di sviluppo fra Nord e Sud del paese. Fra le due aree c’è, da sempre, un travaso di risorse pubbliche stimabile in alcuni punti percentuali del Pil nazionale l’anno, dovuto a un meccanismo semplice (come ricordavo anni fa su questo stesso giornale): le entrate tributarie sono correlate col reddito dei contribuenti, che è strutturalmente più basso al Sud, mentre la spesa pubblica pro capite è grosso modo uniforme nel paese, perché essa intende fornire a tutti i suoi cittadini lo stesso livello di servizio pubblico in tutti gli ambiti (istruzione, sanità, giustizia, e così via). Quindi è la spesa pubblica universalistica il principale motore di redistribuzione delle risorse fra settentrionali e meridionali. Motore che però ha funzionato di fatto poco e male, a causa di una gestione dei servizi pubblici che, a parità di risorse finanziarie, è peggiore al Sud che al Nord.
Si possono citare molti esempi di questo divario qualitativo. L’ultimo studio, molto ben documentato, è della Banca d’Italia (Questioni di Economia e Finanza n. 859 del 17 giugno 2024) e fa riferimento alle cosiddette imprese pubbliche locali, cioè a quelle imprese che sono partecipate dalle amministrazioni pubbliche locali: aziende municipalizzate come l’Atac a Roma e l’Atm a Milano, quelle di distribuzione dell’energia come l’Iren e l’Acea, e tante altre di varia dimensione e di vari settori. Erogano servizi pubblici essenziali, che valgono circa l’8 per cento della produzione totale al Centro-Nord, il 4 al Sud. Dallo studio emerge come le imprese pubbliche locali al Sud siano più piccole e meno redditizie, anzi spesso in perdita, anche nei settori non volti a fornire servizi pubblici a prezzo calmierato. La loro profittabilità netta è in media quasi la metà che al Centro-Nord, essenzialmente per una più bassa efficienza operativa: ad esempio, l’incidenza del costo del lavoro, pur tenendo conto del minor costo per addetto, è doppia. Conseguentemente, la produttività è più bassa. Dimensione ridotta e pochi profitti implicano minori investimenti, meno di un quinto che al Centro-Nord in termini pro capite. Di fronte e evidenze come questa, alcuni settentrionali dicono: i nostri concittadini al Sud non sanno utilizzare bene le risorse che noi devolviamo loro, in parte le sprecano e questo contribuisce a spiegare il loro minore sviluppo che è endemico e non curabile, dunque cerchiamo di ripigliarci almeno una porzione di quelle risorse. Alcuni meridionali invece dicono: il divario qualitativo nei servizi pubblici dipende esso stesso dal minore sviluppo al Sud, sociale prima ancora che economico; occorre cercare di colmare quest’ultimo divario forzando lo sviluppo al Sud con risorse prelevate dal bilancio statale, cosa che la teoria e la storia dicono possibile.
Nessuno dei due argomenti può essere rigettato con un’alzata di spalle. La relativa arretratezza del Sud è un fenomeno secolare complesso, su cui sono stati versati oceani di parole. E’ giusto che in una democrazia moderna la questione dei divari territoriali sia oggetto di politiche pubbliche volte a ridurli, ma con intelligenza e pazienza, al riparo da estremismi e populismi di ambo i segni, entrambi controproducenti.