l'analisi

Schlein sulla sanità "nel merito": tanto dilettantismo, niente coperture

Luciano Capone

Sull'aumento della spesa sanitaria al 7,5% del pil il Pd ha prima proposto una legge con numeri sballati e poi ha presentato improbabili emendamenti: taglio lineare di 31,6 miliardi di tax expenditure, che non esistono

Il Pd non è in buona salute. Per mesi Elly Schlein ha condotto una battaglia sulla sanità, che si è conclusa due giorni fa con lo stop alla sua proposta di legge (pdl) per l’aumento della spesa al 7,5% del pil. La legge Schlein è stata affossata dalla maggioranza per mancanza di coperture. Il problema non sta nella bocciatura, del tutto normale visti i rapporti di forza in Parlamento, ma nella proposta tecnicamente scadente e nella maniera raffazzonata con cui il Pd ha tentato di rimediare. Può darsi che sarà un successo sul piano propagandistico, ma di certo è emerso il dilettantismo sul piano tecnico.

“Stiamo facendo una battaglia su argomenti di merito” ha più volte detto Elly Schlein, riferendosi a Giorgia Meloni. Lo stesso approccio tecnico-pragmatico è stato rivendicato da vari esponenti della segreteria, a proposito della proposta sul finanziamento del Servizio sanitario nazionale. “Siamo entrati nel merito, siete voi che non siete mai entrati nel merito”, ha detto in Aula Marco Furfaro, responsabile Welfare del partito, protestando contro il niet del governo. Inviti analoghi, a entrare “nel merito”, sono arrivati dalla responsabile Lavoro Maria Cecilia Guerra e dalla capogruppo alla Camera Chiara Braga. Ma il problema della proposta del Pd è proprio “il merito”: i numeri non tornano.

Come già descritto sul Foglio del 27 aprile, la pdl Schlein indicava una spesa incompatibile con l’obiettivo e coperture incompatibili con la spesa. Il Pd chiedeva di aumentare la spesa dal 2024 al 2028 “fino a raggiungere un finanziamento annuale non inferiore al 7,5% del pil”, quantificando l’incremento graduale in 4 miliardi annui fino ad arrivare a 20 miliardi nel 2028. L’errore aritmetico della proposta era prevedere un aumento della spesa in rapporto al pil del 2024, senza considerare che il pil nominale (per fortuna) cresce nel tempo: così i 20 miliardi in più previsti a regime, avrebbero portato la spesa sanitaria attorno a 160 miliardi che sono il 7,4% del pil del  2024, ma nel 2028, l’orizzonte temporale del Pd, la spesa si fermerebbe al 6,5%. Quasi lo stesso livello previsto dal governo Meloni per quest’anno (6,4%) e un punto in meno rispetto al target.

In pratica, la legge Schlein sarebbe impossibile da rispettare: all’art. 1 indicava un obiettivo inderogabile di spesa al 7,5% del pil, mentre all’art. 4 forniva risorse per arrivare al massimo al 6,5%. Ma non basta perché, per giunta, la proposta Schlein non indicava neppure coperture certe, ma inutilizzabili e ipotetiche “maggiori risorse derivanti dalla crescita economica”.  Come il Pd ha tentato di rimediare, in zona Cesarini, a queste criticità?

Dopo l’ovvio parere contrario del governo per assenza di coperture, il team Schlein ha proposto due emendamenti last minute che, in sostanza riscrivono, la legge: da un lato si fa una nuova quantificazione della spesa, dall’altro si indicano nuove coperture. Sono i due emendamenti Braga-Furfaro-Guerra. Stavolta li avranno studiati per bene, si dirà. Manco per niente. 

Viene superato il deficit nella quantificazione del costo, ricalcolando il fabbisogno per arrivare al fatidico 7,5% nel 2028: la spesa sanitaria, a regime, deve essere incrementata di 31,6 miliardi. Oltre il 50% in più rispetto ai 20 miliardi indicati nella versione originaria della pdl Schlein.
Ma il problema principale, e irrisolto, resta quello delle coperture. I due emendamenti Braga, infatti, non indicano più la generica “maggiore crescita economica”, ma un taglio lineare delle spese fiscali “con esclusione di quelle relative alla composizione del nucleo familiare, ai costi sostenuti per la crescita dei figli, alla tutela del bene casa e della salute, dell’istruzione e della previdenza complementare”. Anche qui i conti non tornano.

Il Rapporto sulle spese fiscali, redatto ogni anno dal Mef, ha censito oltre 600 misure agevolative e ha quantificato i costi delle 400 più importanti in circa 96 miliardi. L’idea del Pd è quindi quella di amputare in maniera lineare, come su un letto di Procuste, tutte le tax expenditure di un terzo (31,6 miliardi). Il compito è di per sé arduo, visto che le spese fiscali aumentano nel tempo anziché diminuire (erano 47,8 miliardi nel 2017, sono più che raddoppiate in 7 anni). Ma in realtà è matematicamente impossibile, visti i vincoli posti dal Pd, ovvero l’esclusione delle agevolazioni fiscali per famiglia, figli, casa, salute, istruzione e previdenza.

Perché oltre il 40% della massa delle tax expenditure riguarda la casa (circa 40 miliardi, causa bonus edilizi), il 10% la famiglia, il 9% il lavoro, il 7% la salute, il 4% la previdenza, l’1,5% l’istruzione... Cosa resta? Ben poco.  Una voce corposa è quella per la competitività delle imprese, pari a 12-15 miliardi (14%), oltre a un paio di miliardi per ricerca e sviluppo. Non pare lungimirante colpire gli incentivi allo sviluppo e all’innovazione delle imprese. Ma se pure la motosega di Elly decapitasse tutte queste spese fiscali (e non si può, perché ad esempio c’è Transizione 4.0 che rientra nel Pnrr), non si arriverebbe mai ai 31,6 miliardi necessari a coprire le extra spese sanitarie. 

Nel merito: il 7,5% del pil, oltre a quello della spesa sanitaria, diventerebbe il livello del deficit. Che poi è esattamente il motivo per cui Meloni e Giorgetti non aumentano la spesa sanitaria: è difficile trovare le coperture e impossibile alzare il deficit.

  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali