L'analisi

L'ipocrisia di risolvere il guaio delle terre rare con le nostre miniere

Oscar Giannino

Cina e Usa dominano il settore, mentre gli investitori europei sono quasi assenti. L'Ue ha avviato il Raw Materials Act per ridurre questa dipendenza, ma serve una strategia che coinvolga maggiori investitori privati

I risultati delle urne europee e francesi pongono un serio problema per l’industria dell’Unione. Si stanno ponendo le basi per un ripensamento costruttivo di molte norme spropositate negli obiettivi e senza risorse finanziarie adeguate come il Green Deal, ma sempre in una logica di integrazione e coesione europea? Oppure la ripresa di veti e sovranismi nazionali azzopperà ancor più le ambizioni di partecipare alla grande gara in corso tra Usa e Cina? Nel corso dell’estate lo capiremo. Intanto, è sempre utile guardare ai numeri, per capire quanto lontane siano le ambizioni dalla realtà. Un seminario riservato per investitori sulle commodities minerarie ha messo a matrice alcune interessanti ricerche di tre economisti della Banca di Francia sul tema dei Raw Materials, i minerali strategici per tutte le produzioni tecnologiche più avanzate, microprocessori di nuova generazione, propulsione elettrica, capacità computazionale, nanotecnologie, avionica e spazio. Mentre finora è chiaro chi abbia nel mondo le maggiori riserve e capacità estrattive di questi  elementi, mancava un data set affidabile e analitico delle società e dei soggetti che operano nel settore estrattivo, in quello della prospezione e messa a coltura di nuovi giacimenti, come nel reprocessing e recupero dei materiali usati. Sono dati amari, per le ambizioni europee. Andiamo per ordine.
 

Solo nove mesi fa la UE ha deciso di mettere la testa sul guaio della dipendenza strategica europea su queste materie prime. In tempi quasi record rispetto agli standard comunitari, è stato varato in 8 mesi il Raw Materials ACT, che fissa la tassonomia dei minerali su cui abbattere la dipendenza da monocommittenti esteri e da terze parti. Con l’idea di lanciare progetti strategici nazionali ed europei da selezionare entro l’estate, ammessi al finanziamento di tutti i Fondi per la coesione europea. Il 20 giugno scorso il Consiglio dei ministri ha recepito il regolamento europeo con una propria strategia italiana di ricognizione e riapertura delle estrazioni da giacimenti minerari abbandonati nel nostro paese. Tuttavia questa strategia europea manca di un pezzo fondamentale: l’analisi di mercato. Sappiamo da tempo che oggi il 73% di tutta la produzione di cobalto viene dal Congo, il 69% delle terre rare dalla Cina, più della metà del nickel dall’Indonesia, che quattro compagnie minerarie controllano il 55% del cobalto offerto al mercato, che cinque arrivano all’80% dell’offerta di litio. E sappiamo che il più di queste estrazioni si concentra in Paesi che, nel disallineato quadro geopolitico attuale, votano abitualmente all’Assemblea ONU in modo diverso dalla UE, un buon indice per capire quanto sia difficile immaginare stringere con le loro intese commerciali che ribaltino la nostra assenza. Ma c’è un guaio maggiore dell’oblio politico che la UE ha riservato al tema per decenni, mentre la Cina stringeva accordi infrastrutture-per materie prime con oltre 70 Stati nel mondo. Anche gli operatori finanziari europei hanno commesso lo stesso incomprensibile errore.
 

È una fotografia impressionante, quella realizzata dall’esame certosino del peso che le singole quote di investitori finanziari europei detengono nelle maggiori compagnie mondiali attive nell’estrazione e prospezione di materie prime strategiche. Nelle terre rare, gli investitori di Stato cinesi pesano a livello globale per il 73%, quelli Usa il 17%, gli australiani il 6%, gli investitori UE 0%. Sul litio a prevalere sono gli investitori Usa al 31%, quelli latinoamericani al 20% e i cinesi al 19%. Gli investitori europei si fermano al 2%. Sul cobalto i capitali pubblici cinesi pesano il 28%, il 16% è di società pubbliche di Stati africani, Stati Uniti 5% e UE 4%. Nelle società di estrazione del nickel apparentemente gli investitori europei fanno eccezione: pesano per il 19%, rispetto al 17% di quelli USA e al 14% cinese. Ma è un abbaglio: quella percentuale elevata si deve ad accordi di sostegno a investimenti decisi dai russi e realizzati in triangolazioni finanziarie su Cipro. Al netto di questa schermatura finanziaria filo putiniana, il peso europeo si abbassa al 4%. I dati offerti dagli economisti francesi sono molto più dettagliati.
 

Ma la conclusione da trarre è chiara: non è con il ritorno all’estrazione sul territorio italiano ed europeo, che possiamo raddrizzare in pochi anni una situazione tanto compromessa. Serve una grande strategia che chiami a raccolta tutti i maggiori investitori privati europei di settore, se vogliamo mettere sul tavolo di governi spesso molti distanti dall’Europa la quantità di capitali necessari ad assicurare al meglio le nostre produzioni.