L'intervista
“Al governo servono maggiori competenze e al Mef un cambio di passo sul Patto di stabilità”. Parla Giavazzi
"Mi pare che non ci sia sufficiente percezione del cambio di percorso che il bilancio pubblico dovrà fare con le nuove regole europee. In molte amministrazioni scarseggiano figure con adeguata preparazione, risultato di scelte dettate dalla fedeltà e dall’amicizia". Da Ita a Tim fino a Mps. I consigli del professore, ex consigliere di Draghi
Le foto del ministro Giancarlo Giorgetti che sorride soddisfatto in mezzo ad Antonino Turicchi di Ita e a Carsten Spohr di Lufthansa, dopo la chiusura dell’accordo per la vendita della compagnia di bandiera ai tedeschi, le dichiarazioni trionfanti del capo del Mef nel giorno della cessione della rete Telecom al fondo americano Kkr (“è il primo passo verso la soluzione di problemi storici dell’Italia”) e il suo commento sornione sull’uscita dello stato da Mps “a buone condizioni perché non siamo disperati” dicono molto del clima che si respira in questi giorni in Via XX Settembre.
In lontananza si sente ancora l’eco delle turbolenze sui mercati provocate dal voto europeo che hanno rimesso sotto pressione i Btp, ma la reazione degli investitori dopo il risultato del primo turno francese ha rassicurato un po’ tutti, lo spread sovrano è tornato ai livelli di un mese fa e al dicastero festeggiano per avere incanalato alcune partite delicate. Professor Giavazzi, lei che ne pensa della politica economica del governo Meloni a quasi due anni dal suo insediamento? “In generale, mi pare che non ci sia sufficiente percezione del cambio di percorso che il bilancio pubblico dovrà fare con le nuove regole europee”.
“Per quanto riguarda le questioni più domestiche – continua Giavazzi – direi che questo governo ha ancora molta strada da fare prima che arrivi ad avere un rapporto di reciprocità e parità con attori di mercato e gruppi di interesse che ruotano intorno a Palazzo Chigi”.
Francesco Giavazzi è stato consigliere economico del governo di Mario Draghi, ma questo non gli impedisce di esprimere un giudizio che è più tecnico che politico su quello attuale. “Su Ita mi pare che si sia tornati al punto di partenza, cioè alla strada della vendita a Lufthansa che era stata indicata dal governo Draghi perché era l’unica credibile dopo aver perso tempo su soluzioni che ricevevano molte spinte interessate ma che si sapeva non essere ottimali – osserva l’economista –. Per quanto riguarda Telecom, sono preoccupato per la capacità della società di servizi italiana, cioè Tim senza più la rete, di camminare con le proprie gambe operando in un settore in cui tutte le compagnie europee fanno fatica a fare margini. Infine, su Mps vedo un tema industriale di cui non si parla: la banca ha investito poco o nulla in tecnologie e questo frenerà la grande trasformazione fintech necessaria per poter stare sul mercato oggi”.
Problemi ce ne sono sempre, professore, ma non pensa che, intanto, il governo abbia tolto dalle paludi dossier che rischiavano di impantanarsi? “Certamente sono stati fatti passi in avanti nelle direzioni già indicate da altri in passato, ma è tutta da verificare l’efficacia delle soluzioni operative che sono state individuate”. In tutte e tre le partite, Ita, Telecom e Mps, sono stati coinvolti i privati a vari livelli con un approccio liberal-statalista e il supporto di un piccolo esercito di consulenti tecnici e di alcune banche d’affari. Ma è normale che sia così visto che il governo non può permettersi, anche se lo volesse, una presenza più massiccia nell’economia. “Non discuto il coinvolgimento di investitori terzi, che siano italiani o esteri, l’importante è avere la capacità di trattare con questo mondo da pari a pari”. E non ha questa sensazione? “Francamente, penso che nel governo e in molte amministrazioni scarseggino figure con adeguata preparazione, risultato di scelte più dettate dalla fedeltà e dall’amicizia che dall’individuazione di reali professionalità e capacità. Questo è pericoloso perché in qualche trattativa può spostare l’ago della bilancia a favore dei privati, soprattutto se si ha a che fare con grandi istituzioni internazionali ma non solo. Come si è visto un anno fa, con la brutta figura che il governo ha fatto quando ha trasformato l’imposta sugli extraprofitti delle banche, introdotta con grande fanfara, con un intervento che di fatto le ha aiutate a ricapitalizzarsi”.
Un altro campo in cui, secondo Giavazzi, il ministero dell’Economia appare in ritardo è il nuovo Patto di stabilità che imporrà al Mef, e agli altri ministeri economici europei, di impostare un percorso di rientro del debito pubblico su un orizzonte che va ben oltre la legge di Bilancio annuale e si estende a quattro o anche – come ha scelto l’Italia – a sette anni: un orizzonte sconosciuto alla nostra Ragioneria generale abituata a lavorare su leggi annuali. “Mi pare che ci sia scarsa consapevolezza che un cambio così epocale presuppone organizzazione e competenze tecniche adeguate. E questo è un aspetto formale, poi ce n’è uno di sostanza”. Quale? “Nessuno parla più di debito comune e questo è un guaio per l’Italia, che invece dovrebbe continuare a stimolare la discussione in Europa”.
Un argomento che piace poco ai sovranisti europei in questo momento, non crede? “Infatti, il rischio elettorale francese non è rappresentato da un attacco speculativo dei mercati, che molto probabilmente sarà scongiurato da un governo tecnico o di coalizione. Ma dall’opposizione che la destra lepeniana e l’estrema destra europea in generale faranno all’emissione di debito comune, un’opposizione che la premier italiana Meloni farebbe bene a non sposare. Perché renderebbe l’Europa ancora più debole e Putin ancora più forte”.