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l'analisi

Le cinque priorità per Meloni dopo il regalo di Le Pen

Oscar Giannino

Deficit, riforme, difesa, produttività green deal. E poi le alleanze europee. I risultati francesi sono un assist

Il presidente del Consiglio italiano Giorgia Meloni si trova oggi in Europa una situazione che nessun commentatore o politologo aveva previsto. Aveva tessuto per mesi e mesi una trama e ordito un tentativo che aveva suscitato interesse e meritato anche insperati crediti in Europa, nonché inusitati editoriali di grandi organi d’informazione europei nei quali Giorgia Meloni veniva presentata come l’inattesa protagonista di una destra ben più credibile e responsabile di quanto fossero in Francia Le Pen-Bardella, in Germania l’AFD, in Ungheria Orbàn, in Polonia il PIS finalmente sconfitto alle urne dal liberale Tusk, ma caparbiamente proteso a impedirgli di governare. Occidentalista e filo Ucraina, aliena dall’allineamento a Putin delle destre francesi, tedesche e ungheresi, con un ottimo e più volte ostentato rapporto con Ursula von der Leyen che per mesi e mesi ha indotto i Popolari Europei a guida tedesca a coltivare l’ipotesi di imbarcare Meloni e parte del suoi gruppo europeo ECR in maggioranza per la nomina della nuova Commissione UE, fino a un mese prima del voto europeo il disegno di Meloni sembrava prossimo a un grande successo. Ma l’ipotesi è sfumata. Salvini si è prodotto in martellanti dichiarazioni a favore non solo di Le Pen ma delle destre europee più filoputiniane, scagliandosi contro chi nella maggioranza di governo italiana pensasse a intese in Europa allargate ai socialisti europei. E sbandierando il suo rapporto di “imbucato” nella corte di Trump. Meloni si è innervosita. Ha lottato contro la discesa nei sondaggi alzando i toni, ottenendo sì un risultato finale alle europee del 28,7% dei consensi, ma senza contenere la ripresa del Pd tornato oltre il 24% alle europee, e a vincere in diversi Comuni capoluoghi nel doppio turno amministrativo.

 

Il nuovo nervosismo aggressivo del premier italiano ha indurito i possibili partner europei, disincentivandoli a riconoscere i suoi meriti. No al coinvolgimento nella maggioranza europea di Giorgia Meloni, hanno preso a dire i liberali di Renew Europe, i socialisti a cominciare dal premier spagnolo Sanchez, e la maggior parte anche dei Popolari europei a cominciare dalla Cdu tedesca. Salvini ha goduto come un riccio, Meloni si è ulteriormente stizzita e a quel punto ha commesso quel che dal suo punto di vista resta un errore: non dare l’assenso a nessuno dei tre membri della nuova triade apicale europea. Né alla Von der Leyen, né al socialdemocratico portoghese Antonio Costa, per non dar ragione a Salvini, ma nemmeno alla liberale ex premier estone Kaja Kallas, scelta come nuovo Alto rappresentante europeo per la politica estera grazie alla sua tenace azione a sostegno dell’Ucraina, e che proprio per questo avrebbe potuto e dovuto ottenere un sì esplicito da parte di Meloni a nome dell’Italia. Invece no, e a quel punto mesi di fatica sono andati a farsi benedire. Riportando in alto mare anche l’ipotesi di un commissario italiano in Europa in portafogli importanti, come l'Industria o la concorrenza. Il resto nelle ultime settimane lo ha fatto Orbàn, che a differenza degli umori di pancia italici ha sempre mostrato grande abilità negli affari europei: ha espresso raffiche di veti a scelte europee ma incassando dopo aspre trattative sempre “opt out” formali concessi al suo paese senza penalizzazioni. E appena concluso il conto dei voti alle europee, Orbàn in men che non si dica ha fatto nascere un nuovo gruppo europeo di “Patrioti” che supera per consistenza l’ECR della Meloni, gruppo in cui si sono infilati di corsa anche VOX e Abascal che pure per anni sembravano meloniani di ferro. Le-Pen Bardella, con il loro 34% al primo turno francese, sopravanzavano Meloni anche come percentuale di voto nel proprio paese. Per Meloni, nervosismo ai massimi. 


Meloni ha tutto l’interesse a non apparire scassa bilancio come Le Pen-Bardella. E dovrà dunque riprendere il filo proprio con la Francia e la Spagna  perché la nuova Commissione  predisponga nuovi strumenti finanziari comuni per finanziare le transizioni, oltre il 2026 


Senonché, domenica al secondo turno delle politiche in Francia, ecco la grande novità che cambia di nuovo le cose. E non a sfavore di Meloni, se si usa il cervello e non la pancia. Tutti avevano dato del pazzo a Macron per aver convocato sul tamburo elezioni anticipate appena profilatasi l’ampiezza dell’avanzata di Le Pen-Bardella nel voto europeo.  Tutti a dire e scrivere che Macron si confermava un elitario incapace di capire il popolo, e che così avrebbe solo consegnato prima del tempo la Francia a un disastro di finanza pubblica e all’isolamento a fianco di Putin. Ma i pazzi erano quelli che davano del pazzo a Macron, non viceversa. Centomila volte meglio politici che assumono il rischio di fare all inn,  di quelli che concepiscono la politica come arte del durare al potere andreottianamente il più a lungo possibile. Macron ha interpretato lo spirito profondo delle istituzioni francesi: il voto europeo era espresso dall’elettorato sapendo che non ne sarebbero discese conseguenze sul governo, ma allora vediamo subito come la pensano i francesi quanto a chi deve governare la Francia. Il maggioritario a doppio turno delle politiche francesi serve proprio a questo: al primo turno si vota per identità di appartenenza o per empatia, al secondo si sceglie il candidato che serve di più per formare un governo. Il risultato è che Macron aveva ragione: i francesi possono votare anche uno su tre a favore di le Pen-Bardella in un voto europeo, ma se si tratta del governo nazionale mettono la destra vichista solo al terzo posto, con 143 deputati cioè meno della metà di quanti ne servono per governare. Mentre il centro di Macron ha eletto più di tre volte il numero di deputati rispetto a chi profetava la sua discesa a meno di 50 seggi, rimanendo solo di 14 deputati inferiore al fronte delle sinistre che ne ha ottenuti 182. Gli odiatori di Macron diranno che comunque il presidente ha consegnato la Francia all’ingovernabilità. No, Macron ha dimostrato che le istituzioni francesi sono fatte apposta per distinguere identità e governo, e ora che la Francia si trova per la prima volta in un gioco dei tre cantoni che produce instabilità, è bene che i francesi riflettano su quanto avverrà nelle prossime settimane, cioè come innanzitutto il fronte popolare di sinistra risponderà all’appello per la governabilità del Paese. Melenchon non condivide affatto, la sua è l’eterna pulsione al gauchismo comunardo, irriducibile a ogni compromesso. Ma è positivo che i francesi vedano coi loro occhi a che cosa può condurre l’irriducibilità identitaria, senza dover aspettare due anni per le presidenziali. Esattamente come chi ha votato il Labour di sir Keir Starmer gli ha conferito  – anche in quel caso grazie a un altro sistema elettorale concepito non per le identità ma per governare – una schiacciante maggioranza parlamentare proprio perché il nuovo Labour aveva abbandonato l’antisemtitismo, l’antimercatismo e l’antioccidentalismo di Corbyn.


Il  nervosismo  di Meloni in Europa ha indurito i possibili partner. Ma una strada ora c’è. E passa anche da Parigi


Come e facendo che cosa, tutto questo potrebbe volgersi in insperata occasione invece che in rischio per Meloni e l’Italia, finite nell’angolo?

Chi qui scrive non sopporta chi indica ricette semplici per problemi complessi. Vanno bene per i like su Tik Tok, non per governare paesi complessi in un’Europa in crisi di identità. Ergo limitiamoci a esempi che potrebbero essere realisticamente d’aiuto, ma che non sono né prediche né paradigmi.

Primo: finanza pubblica. Macron ha avuto ragione anche sui mercati: non è partito il rally degli spread tra titoli pubblici europei, sisma che si sarebbe esteso innanzitutto all’Italia iperindebitata se avessero vinto Le Pen-Bardella col loro programma scassa bilancio. In questi due mesi estivi, Meloni potrebbe-dovrebbe fare due cose. Una in Italia e una in Europa. Poiché il suo ultimo DEF era privo della parte programmatica, imporre al MEF-Giorgetti e alla sua maggioranza un tragitto di riduzione del deficit più serrato di quanto sin qui sottinteso. Eurostat ci ha dato una mano fermando da quest’anno l’effetto sul deficit anno per anno dei residui ancor elevati del Superbonus. Ma per levare argomenti ai molti diffidenti verso l’Italia bisogna seriamente pensare a come imboccare una via simile a quella del Portogallo, per abbattere il debito pubblico con avanzi primari di 2 o meglio 3 punti di PIL annuo come ripete Bankitalia. Al contempo, su questa base bisogna riprendere il filo proprio con la Francia e la Spagna di Sanchez perché la nuova Commissione UE predisponga nuovi strumenti finanziari comuni per finanziare le transizioni, oltre il 2026 in cui scadrà l’utilizzo del Next Generation EU. Meloni ha tutto l’interesse a non apparire scassa bilancio come Le Pen-Bardella, e come sono anche i frontisti di sinistra alla Mélenchon (i mercati hanno reagito bene anche perché prendono alla lettera l’impegno dei macroniani contro un programma di governo alla Mélenchon: preferiscono Rafael Glucksmann che appena noto noto il risultato elettorale ha detto “ora comportiamoci da adulti”).

 

Secondo: il Green Deal. Meloni ha una carta da giocare: ma va giocata con una rete di contatti politici, non con annunci di piazza. Riuscire a convincere francesi e tedeschi che alla diluizione degli irrealizzabili obiettivi del Green Deal la nuova Commissione UE deve iniziare a lavorare da subito. Altrimenti continueremo tutti con ipocrisie come il recente nuovo PNIEC varato dal nostro governo: molto bene l’apertura al nucleare, ma senza il coraggio di dire che l’attuazione degli attuali obiettivi UE al settore del trasporto o in quello della moltiplicazione di potenza installata di fotovoltaico ed eolico sono in realtà irrealizzabili. Vedi recenti articoli sul Foglio come quello di Chicco Testa. Le Confindustrie di Italia, Francia e Germania sono già d’accordo da tempo su questo obiettivo, non è poco se l’Italia ne prende la bandiera: evitando estremismi vocali che sono solo controproducenti.


Varare incentivi ai contratti di produttività  rafforzati, a cominciare dai settori dei servizi in cui la produttività è negativa


Terzo: la produttività. L’Italia della Meloni resta a bassa produttività. O meglio con una produttività della manifattura che esporta non lontana da medie europee, ma in quasi tutti gli altri settori un disastro. Un tempo, francesi e tedeschi ne gioivano. Da anni, non più: se il trend continua significa dover disintermediare fornitori italiani che garantiscono molto valore aggiunto alle loro produzioni finali. Ergo varare incentivi ai contratti di produttività molto rafforzati, a cominciare dai settori dei servizi in cui la produttività è negativa o ristagna, è una delle poche voci su cui Francia e Germania potrebbero darci una mano in Europa a ottenere per queste misure esenzioni dai vincoli di bilancio: a differenza degli incentivi all’occupazione sin qui così cari al governo. 

 

Quarto: la politica di difesa. Il dibattito euro-atlantico, in attesa di Trump, ha annacquato il focus prevalente sul 2% di PIL in spese per la difesa. L’invasione dell’Ucraina ha dimostra che il problema europeo non è quanto ma come si spende, in maniera dispersa e senza far scala. I gruppi pubblici italiani dell’industria della difesa dovrebbero essere chiamati a replicare l’esempio appena fornito con il protocollo Leonardo-Rheinmetall sul tank di nuova generazione. Più l’Italia si impegna in progetti industriali condivisi di trasferimento tecnologico, più sale la nostra indispensabilità a Parigi e e Berlino. Il secondo punto è ancor più concreto: per dare forza e continuità agli aiuti all’Ucraina le mere dichiarazioni e i Consigli Europei servono fino a un certo punto. E’ al gruppo di contatto per la difesa dell’Ucraina, che si riunisce periodicamente all’aeroporto militare di Ramstein a Francoforte, che il ruolo dell’Italia deve acquistare ben altro peso. Con tanti saluti a Le Pen-Bardella e a Orbàn. 

 

Quinto, le istituzioni. La lezione britannica e francese non è “uniti contro le destre si vince”, come ripete la sinistra e il più dei media. Ma che, se i partiti li sanno interpretare, vincono sistemi istituzionali concepiti per governare. Su questo, destra oggi al governo in Italia è ancora indietro. La stizza verso il doppio turno ai Comuni è la stessa che Le Pen-Bardella hanno riservato al doppio turno che li ha umiliati all’Assemblea Nazionale. Invece bisogna farla finita, con sistemi elettorali e forme di governo volti a premiare identità e contrapposizioni. Vale per la legge elettorale – in assenza della quale la riforma costituzionale del premierato è pura grida comiziesca – come per l’autonomia differenziata alla regioni: in un paese di enormi gap territoriali di servizi pubblici e diritti reali garantiti alla persona, tema troppo complesso per regolarlo in nome di identità contrapposte.