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Una nuvola nel cielo terso del lavoro italiano dipinto dall'Ocse: i salari

Dario Di Vico

Il mercato del lavoro italiano ha raggiunto livelli record di occupazione e crescerà ancora nei prossimi due anni. Si registra più stabilità e meno precarizzazione. Ma sulle retribuzioni l’Italia indossa inesorabilmente la maglia nera

Nel dibattito sulle tendenze del mercato del lavoro italiano fa irruzione l’Ocse con la pubblicazione del suo Employment Outlook 2024 e in particolare con la nota dedicata all’Italia. Che mette in fila alcuni dei nodi che vedono accapigliarsi gli esperti della materia ovvero la crescita dei posti, il lavoro povero, la tenuta dei salari. A livello generale i mercati del lavoro dell’area Ocse continuano, nonostante le incertezze sul pil, a registrare ottimi risultati con molti paesi che hanno fatto registrare livelli storicamente elevati di occupazione e tassi storicamente bassi di disoccupazione. A maggio 2024 il tasso di disoccupazione Ocse era al 4,9 per cento e nella maggior parte dei paesi i tassi di occupazione sono saliti più per le donne che per gli uomini, rispetto al livello pre-pandemia. Le difficoltà a reperire manodopera sono segnalate in parziale attenuazione, ma restano generalmente alte.

Dal quadro generale al focus sull’Italia. Nonostante il rallentamento della crescita economica registrato dalla fine del 2022 il mercato del lavoro italiano ha raggiunto livelli record di occupazione e livelli minimi di disoccupazione e inattività. Il tasso di disoccupazione è sceso al 6,8 per cento a maggio 2024, un punto percentuale in meno rispetto a maggio 2023 e tre punti percentuali in meno rispetto a prima della crisi indotta dal Covid (ma ancora sopra la media Ocse del 4,9 per cento). Anche l’occupazione totale è aumentata nell’ultimo anno, con un incremento della base annua del 2 per cento a maggio 2024. Tuttavia – sottolinea la nota – rimaniamo ben al di sotto della media Ocse (62,1 per cento contro 70,2). Fin qui lo “storico” ma l’organizzazione parigina ci dice che queste tendenze sono destinate a continuare. Il mercato del lavoro italiano, infatti, crescerà ancora nei prossimi due anni: dell’1,2 per cento nel 2024 e dell’1 nel 2025 e ciò nonostante la riduzione della popolazione in età attiva.

 

Di qualche interesse è il tipo di fotografia che possiamo scattare relativa alla qualità e alla contrattualizzazione dei posti. Le difficoltà ad assumere, secondo l’Ocse, hanno cambiato i rapporti negoziali nel mercato del lavoro e di conseguenza le imprese tendono a offrire da subito ingaggi contrattuali a tempo indeterminato come fattore di attrattività per talenti e non. Da qui, come ampiamente registrato dall’Istat in questi mesi, l’aumento significativo dei posti fissi e la diminuzione, invece, dei contratti a tempo indeterminato. Più stabilità, meno precarizzazione. Il dibattito sull’enigma “pil lento, occupazione veloce” resta attuale e del resto l’offerta di lavoro rimane sorprendentemente alta rispetto al ritmo singhiozzante dell’economia reale (si veda anche il report di Bankitalia di 48 ore fa), ma le interpretazioni sono meno pessimistiche. Ci sono fattori strutturali ampi che spiegano la tendenza di cui sopra, come la riforma pensionistica che ha trattenuto le persone nella pianta organica delle aziende e l’atteggiamento delle imprese che tendono a stabilizzare la forza lavoro presente secondo la cultura del labour hoarding. Insomma, se temevamo che l’aumento degli occupati fosse solo un incremento di lavoretti a basso valore aggiunto, per lo più nei servizi, l’Ocse ci rassicura. Pur senza che ci incamminassimo lungo quella via alta della competitività – che sarebbe in verità l’unico percorso per mettere in sicurezza il sistema Italia – è aumentata oggettivamente la forza negoziale del lavoro che si è tradotta in più posti a tempo indeterminato e maggiori benefit. Si utilizza al massimo l’organico esistente, si aumentano le ore di lavoro e del resto è il comportamento relativamente più semplice da adottare visto che si trova difficoltà a ingaggiare competenze dall’esterno (e invece in casa già ci sono). E l’Ocse dice che si andrà avanti così anche nell’anno in corso e nel prossimo: in media le persone lavoreranno di più e saranno coperte meglio dal punto di vista contrattuale.

In questo cielo che può apparire singolarmente terso però l’Ocse individua una “nuvola”, quella dei salari. O se volete, un nuvolone. Ma andiamo per gradi. Nei paesi Ocse i salari reali sono in crescita su base annua nella maggior parte dei casi, in un contesto di inflazione in calo. Tuttavia in molti paesi i salari restano al di sotto del livello del 2019. Mentre assistiamo a questo parziale recupero i profitti iniziano ad assorbire parte dell’aumento del costo del lavoro ma in molti paesi lo spazio per attutire ulteriori aumenti c’è, soprattutto perché non si è innescata la temuta spirale prezzi-salari. L’Italia però in questo contesto indossa inesorabilmente la maglia nera. E’ il paese Ocse che ha registrato il maggior calo dei salari reali: nel primo trimestre 2024 erano ancora inferiori del 6,9 per cento rispetto a prima della pandemia. Grazie al rinnovo di importanti contratti collettivi, soprattutto nel settore dei servizi, il numero di dipendenti privati con contratto scaduto è drasticamente sceso dal 41,9 per cento al 16,7 e ciò ha contribuito a spingere la crescita dei salari negoziati del 2,8 per cento rispetto all’anno precedente. Ma, sostiene l’Ocse, la crescita dei salari reali dovrebbe rimanere contenuta nei prossimi due anni. Si prevede che i salari nominali aumenteranno del 2,7 per cento nel 2024 e del 2,5 per cento l’anno successivo. Incrementi però che l’Ocse avverte: sono inferiori a quelli della maggior parte dei paesi presi in esame, e consentiranno solo un recupero parziale del potere d’acquisto perduto, dato che l’inflazione è stimata all’1,1 per cento nel 2024 e al 2 per cento nel 2025. Queste dinamiche di mancato rientro possono contribuire ad ampliare in Italia la platea dei working poors, di coloro che lavorano ma non riescono con la paga percepita a far fronte al costo della vita, finiscono al margine e di conseguenza rischiano di scendere sotto la soglia di povertà. Il lento procedere dei salari determina, oltre a quello già indicato, un altro fenomeno in via di intensificazione: la tendenza dei giovani a lasciare l’Italia in cerca di retribuzioni più soddisfacenti. E anche questa tendenza aggrava quello che una volta chiamavamo mismatch tra posti disponibili e competenze ma in realtà oggi ci appare come un crescente vuoto di forza lavoro mobilitabile.

L’Ocse chiude l’esame del caso Italia mettendo sotto la lente il cambiamento climatico sotto la specie delle politiche necessarie per riallocare la forza lavoro. Gli occupati green-driven sono oggi il 19,5 per cento ma di questi solo il 13,7 per cento corrisponde a vere e proprie nuove occupazioni verdi. Attualmente però il tasso di partecipazione in programmi di formazione rimane basso e i lavoratori impiegati in occupazioni ad alta intensità di emissioni tendono a ricevere una formazione inferiore rispetto agli altri lavoratori e largamente insufficiente rispetto al fabbisogno di re-skilling. Anche questa è una contraddizione da sanare perché il deficit di formazione ci fa meritare in ambito Ocse un’altra maglia vicina al colore nero.

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