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Dove va il treno. Cosa vuole fare Giorgetti con Ferrovie?

Stefano Cingolani

Ristrutturare, non solo fare cassa: l’alta velocità in Italia costa il doppio che nel resto d’Europa. Anche per questo, forse, il ministro vuole vendere un pezzo dell'azienda

Cosa vuol fare Giancarlo Giorgetti? Dopo la rete Telecom, dopo Alitalia e Autostrade, vuol vendere un pacchetto di Poste e persino Ferrovie? I sindacati hanno già anticipato il loro no. Lo hanno fatto fin dallo scorso ottobre quando venne fuori per la prima volta l’ipotesi di collocare in Borsa il 40 per cento di Trenitalia, mentre la rete resterebbe integralmente allo stato. Si tratta di privatizzare i profitti e pubblicizzare le perdite, secondo Cgil, Cisl e Uil, le tre confederazioni unite nel negare, divise nel proporre. Si tratta di far cassa secondo il Tesoro, che ha bisogno di denaro liquido subito altrimenti il prossimo bilancio calerà come una mannaia su un’economia che va a rilento, secondo i calcoli della Banca d’Italia. Più in generale si tratta di prendere atto realisticamente che occorre far fronte a ingenti investimenti per gestire, potenziare, ristrutturare una rete di trasporto su rotaia ormai piena di buchi. E non solo quella locale. L’alta velocità, la gallina dalle uova d’oro, oggi cova uova di piombo. L’estate è già segnata da continui stop and go: il nodo di Firenze è il più intrecciato insieme alla tratta che da Napoli s’avvicina a Roma. Il 16 maggio tra Orte e Orvieto si è bloccata la linea, con ritardi fino a un’ora e mezza. Il 21 giugno è il caldo romano: i passeggeri boccheggiano senz’acqua e senza aria condizionata sul Frecciarossa per Venezia, soffre anche Dario Franceschini. Ma non pena solo il centro-sud. A Milano il 10 giugno un guasto ferma decine di treni per ore e ore. E la geremiade può continuare a lungo. Poi ci sono gli scioperi del fine settimana. Si comincia il 24 gennaio e si va avanti fino a luglio per riprendere a settembre. I treni in genere arrivano in orario, proprio come quando c’era lui; se partono e se arrivano. L’idea che si debba mettere mano a un progetto di rilievo strategico diventa più che mai attuale. Il Pnrr ha destinato ampi fondi alle ferrovie, oltre 26 miliardi per l’alta velocità e i collegamenti diagonali. L’azienda ne ha impiegati otto l’anno scorso. Ma non sarà sufficiente.


Secondo Cgil, Cisl e Uil si tratta di privatizzare i profitti e pubblicizzare le perdite. Ma bisogna realisticamente far fronte a una rete piena di buchi


Vendere un bel pacchetto di Fs non è un’idea nuova, ma ogni volta che è stata proposta da ministri e governi diversi non ha mai preso corpo. Chi ha seguito il tormentone ferroviario torna indietro nel tempo. Correva l’anno 2014, a Palazzo Chigi sedeva Matteo Renzi e a Palazzo Sella, quartier generale del ministero dell’Economia, Pier Carlo Padoan. Il risiko delle poltrone porta al vertice di Ferrovie l’economista Marcello Messori come presidente e Michele Mario Elia come amministratore delegato. Il governo ha intenzione di collocare sul mercato il mastodonte dei treni, ma presto si apre un conflitto sul come. Messori pensa che occorra separare la rete dai servizi, mantenere la prima nelle mani dello stato e accettare la libera concorrenza dei treni. Del resto l’azienda statale non ha più il monopolio e dal 2008 Italo sferraglia sulla linea ad alta velocità, tra ostacoli, colpi bassi e persino sabotaggi più meno aperti. Messori sostiene non solo lo sdoppiamento, ma una sorta di pulizia dell’intera struttura. I binari, la rete elettrica e quella delle telecomunicazioni, oltre a parte della logistica e a un ampio patrimonio immobiliare, tutte queste attività andrebbero scorporate per evitare l’effetto carrozzone e rendere più efficiente l’intero servizio. Non solo: lo stesso bilancio risulta meno chiaro se appare sui libri contabili un massiccio capitale, buona parte del quale, però, risulta immobilizzato. Economia aziendale a parte, la questione è seria: Messori non vuole che si venda per far cassa, anzi in tal caso, dice, sarebbe una vera e propria svendita che porterebbe al Tesoro solo una manciata di miliardi, meno di quattro. L’economista ha un progetto ambizioso: riunire in un’unica società il patrimonio urbano e metterlo tutto all’asta; cedere a Terna la rete elettrica; trasformare Trenitalia in una holding con tre controllate (alta velocità sul mercato, trasporto locale sovvenzionato, trasporto merci); riportare la rete sotto il controllo diretto del Tesoro. A quel punto la nuova compagnia delle strade ferrate potrebbe essere quotata staccando per cominciare quel 40 per cento del quale si è tornati a parlare in questi giorni. Secondo le stime, tutti questi movimenti potrebbero fruttare almeno dieci miliardi di euro, ma soprattutto, una volta smontato il mastodonte, nascerebbe un’impresa più snella e competitiva. Apriti cielo. I sindacati mettono sul piatto i posti di lavoro. Che fine avrebbero fatto i 70 mila e passa dipendenti? Una domanda sulfurea anche per i partiti che tradizionalmente usano le assunzioni nelle aziende pubbliche come veicolo di consenso (non voti di scambio per carità, dimentichiamo pure questa oscura definizione). L’intero corpaccione di Ferrovie ha sussulti, spasmi, singulti che inquietano anche il governo a cominciare dal ministro Padoan che pure ha piena fiducia in Messori e in Elia. Hai voglia a spiegare che è meglio una vendita strategicamente organizzata che ha i suoi tempi e i suoi passaggi obbligati rispetto al modello dei pochi soldi, maledetti  e subito. Cominciano a circolare le voci su una tensione anche tra il presidente e il ministro, insomma il clima s’avvelena tanto che in ottobre Messori riconsegna le deleghe e un anno dopo si dimette. Da allora nulla si è più mosso. 


Già nel 2014 Messori aveva provato a smontare il mastodonte e creare un’azienda più snella e competitiva. Le tensioni con Padoan


Ci siamo dilungati sul recente passato perché un piano organico di riorganizzazione e privatizzazione c’era, e sembra proprio che Giorgetti voglia prenderlo in mano per ripartire da lì. Circolano solo voci attorno al Palazzo, ma non è escluso che il progetto del ministro ruoti attorno a due modelli già seguiti: quello telefonico con la separazione tra rete e servizi e quello aeronautico con l’intervento di un forte partner industriale e non solo finanziario. Sarà d’accordo Matteo Salvini, sia come ministro dei Trasporti che vuole avere l’ultima parola (anche se l’azionista è il Tesoro) sia come leader della Lega alla quale appartiene (nonostante tutto) il titolare dell’Economia?

 

Ma cosa sono oggi le Ferrovie dello stato? Potremmo rappresentarle come un ircocervo con una testa che opera in concorrenza e un corpaccione statale appesantito, assistito e non più funzionale ai bisogni dell’Italia. L’alta velocità è stata un successo, fin dalle prime mosse. La direttissima Roma-Firenze inaugurata nel 1977 nel tratto fino a Città della Pieve, e completata solo nel 1992, resta la vera infrastruttura moderna, un lungo rettilineo costruito ex novo e non frutto di adattamenti del vecchio percorso. E’ quella l’alta velocità propriamente detta. I collegamenti Salerno-Milano e Torino-Venezia hanno creato una grande T distesa sulle strade ferrate, per molti versi parallela a quella autostradale con l’obiettivo non solo di essere complementare, ma sostitutiva. C’è riuscita con l’aereo che tra Roma e Milano è diventato non più competitivo mettendo in difficoltà Alitalia. Secondo alcuni Fs ha cannibalizzato la compagnia di bandiera contribuendo anche alla sua crisi. Lo stato ferroviario contro lo stato aeronautico e il primo ha vinto. L’intera società è cambiata. Gli affari, le vacanze, gli scambi di ogni genere si sono concentrati attorno ai due assi nord-sud e ovest-est, contribuendo anche allo sviluppo di attività produttive lungo le strade ferrate e le autostrade. La logistica è rifiorita con gli interporti da Napoli in su. L’alta velocità produce ancora utili, non è un fiore all’occhiello, può essere una cornucopia sia per l’azienda pubblica sia per quella privata. Cosa c’è, però, fuori di essa?


Cosa c’è oltre all’alta velocità? Il ritardo secolare in Sicilia, la lumaca ferroviaria della Tirreno-Adriatico, il tempo medio di 5 ore tra Rimini e Bari


C’è la ormai mitica Salerno-Reggio Calabria: 400 chilometri per una spesa di 20 miliardi di euro. Dopo aver assegnato nel maggio 2023 i lavori su un primo lotto di 35 chilometri dal valore di due miliardi, è stato avviato il dibattito pubblico su un’ulteriore tratta di poco inferiore ai cento chilometri per un costo stimato in almeno otto miliardi di euro, ma sul progetto preliminare non si è trovata l’intesa. Oltre lo stretto di Messina c’è un ritardo secolare. Treni vecchi, linee lente. Gli investimenti in corso assorbono risorse importanti lungo le due principali direttrici, la Messina-Catania e la Palermo-Catania. Il resto è silenzio. La Tirreno-Adriatico è una corsa ciclistica, ma è una lumaca ferroviaria. Tra le principali gare lanciate da Rfi ci sono due lotti del raddoppio della ferrovia Roma-Pescara per 477 milioni. Il tempo medio tra Rimini e Bari è 5 ore e 9 minuti per coprire 479 chilometri. E’ un percorso più breve che tra Roma e Milano, ma s’impiegano circa due ore in più. Tra Genova e Milano viaggiano treni d’altri tempi, per percorrere 119 chilometri occorre se va bene un’ora e 47 minuti. Non parliamo dei collegamenti con Roma. Sono 403 chilometri e in media ci vogliono 5 ore e 16 minuti. La dorsale tirrenica risale indietro nel tempo e nulla è previsto per il prossimo futuro. Possiamo continuare a lungo con la nostra giaculatoria. Senza sottovalutare i soldi del Pnrr e i progetti in corso, il rilancio del trasporto ferroviario richiede sforzi che nessuno oggi è in grado di fare, da solo e con i denari dei contribuenti. Se poi apriamo il triste capitolo del trasporto merci finiamo in un buco nero: poco più del 16 per cento viaggia su ferro e non si vede come aumentare in modo consistente questa quota irrisoria nei prossimi anni.

 

Gettando uno sguardo ai conti, vediamo che il gruppo Fs ha un capitale investito netto di 53 miliardi di euro a fronte di ricavi per quasi 15 miliardi nel 2023. Poste, con ricavi poco inferiori, ha un capitale sociale di 2,3 miliardi e ne capitalizza in borsa quasi 16. Il motivo è che Ferrovie possiede e iscrive a bilancio non solo i beni strumentali, come i treni, e altre proprietà valorizzabili, come gli scali inutilizzati, ma attraverso la sua controllata Rfi anche l’intera rete ferroviaria, cioè i binari che sono dati in concessione dallo stato a titolo gratuito, quindi i pedaggi pagati non comprendono la remunerazione degli investimenti. Un assetto per molti versi paradossale. Il 2023 ha visto un miglioramento dei conti con ricavi di 14,800 miliardi di euro; 7,9 provengono dai trasporti su ferro e su gomma (con la società che possiede anche gli autobus); 4,2 miliardi dall’affitto della infrastruttura e 2,7 miliardi dai contributi dello stato. I costi operativi sono ammontati a 12,6 miliardi, il margine è stato di appena 338 milioni dopo aver restituito gli aiuti di stato e i ristori Covid. L’utile netto solo 100 milioni. Insomma pur tenendo conto della ripresa dei passeggeri dopo la pandemia, vediamo un colosso che non produce sufficienti ritorni economici. Conviene davvero ai fondi di investimento? Meglio cercare un partner industriale come Lufthansa per Ita. Ma chi? I dipendenti superano i 92 mila, circa 7 mila in più rispetto all’anno precedente. E a ogni stormir di privatizzazione c’è un levar di scudi sulla difesa dell’occupazione.


Il 2023 ha visto un miglioramento dei conti, ma il margine è stato di appena 338 milioni dopo aver restituito aiuti di stato e ristori Covid


Tema caldo è sempre stato l’ammontare dei sussidi pubblici. Tutte le aziende ferroviarie nei grandi paesi sono sostenute direttamente con trasferimenti dello stato, altrimenti le linee minori, quelle periferiche, quelle non produttive non potrebbero sopravvivere. Ma le ferrovie italiane sono più sussidiate delle altre. Le cifre risalgono a una decina di anni fa quando la privatizzazione era all’ordine del giorno e sono stati pubblicati alcuni studi dettagliati. In particolare l’Università Bicocca ha elaborato un confronto con Gran Bretagna, Germania, Francia e Svezia. Il lavoro condotto da Ugo Arrigo e Giacomo Di Foggia mostra che la spesa pubblica ferroviaria in Italia in 20 anni trascorsi dalla trasformazione di Fs in società per azioni (1992-2012) è stata enorme: 207,7 miliardi di euro, 84,8 di parte corrente e 122,8 in conto capitale. Si tratta di una media annua di 9,9 miliardi. Nello stesso periodo la spesa francese è stata di 153,6 miliardi, ma il settore ferroviario francese è il doppio di quello italiano per dimensione e passeggeri. La Gran Bretagna ha speso soltanto 69,3 miliardi di euro, un terzo rispetto all’Italia, nonostante la rete e il traffico siano grosso modo uguali. Il dato tedesco, disponibile solo per i nove anni compresi tra il 2002 e il 2010, ammonta a 88 miliardi totali (contro gli 85 dell’Italia nello stesso periodo), con un sistema ferroviario pari a due volte e mezza quello italiano. Ciò non vuol dire che l’Italia abbia fatto di più: ha costruito e messo in esercizio 700 chilometri di nuove linee ad alta velocità contro più di 1.200 in Germania, 1.300 in Francia e 1.600 in Spagna, che eroga sussidi più bassi degli altri paesi. Un’indagine della Corte dei conti europea ha dimostrato che l’alta velocità in Italia costa il doppio che negli altri paesi. Basta l’orografia a spiegare questo divario? La spesa ferroviaria ha contribuito per circa un quinto al debito pubblico italiano: se tutti i sostegni concessi fossero finanziati con titoli pubblici, in capo alle ferrovie ci sarebbero ben 338 miliardi, 215 per sussidi veri e propri e 173 per gli interessi accumulati. Se fossero state coperte con le tasse le spese necessarie e con debito solo l’eccesso, avremmo 259 miliardi per sussidi e 143 miliardi per interessi. Non è tutto, ci sono voci difficili da stimare come i contributi previdenziali o il peso delle ferrovie locali, ma già così tremano i polsi.

 

Fs insomma è troppo grande e costosa per restare tutta nel bilancio dello stato. Quale mandato l’azionista Tesoro ha affidato ai nuovi vertici, il presidente Tommaso Tanzilli e soprattutto l’amministratore delegato Stefano Donnarumma? Tanzilli, laureato in giurisprudenza, ha lavorato sempre nel turismo, presidente dell’ente laziale e della Federalberghi regionale. Donnarumma, ingegnere meccanico, è milanese, ha guidato la romana Acea prima di passare a Terna. Ma ha cominciato nell’industria manifatturiera, componentistica per auto e treni in società internazionali. Sembrava destinato ad amministrare Enel, glielo aveva promesso Giorgia Meloni, però gli accordi politici con Lega e Forza Italia hanno fatto preferire Flavio Cattaneo che veniva dai treni (Italo la sua ultima poltrona) e Paolo Scaroni alla presidenza. Cosa farà Donnarumma? Sarà lui il privatizzatore? Lo vedremo presto, sperando che non succeda come con Messori.

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