La vendita del pomodoro di Manduria incentivata da una campagna stampa contro il logorio della vita moderna? Sono solo ondate emotive (foto Ansa) 

La nicchia bugiarda

L'esaltazione del prodotto tipico, un tic di chi vorrebbe “farci vivere di turismo”

Antonio Pascale

Un mutamento antropologico. Non quello temuto da Pier Paolo Pasolini: no, al posto del buco nero della fame, abbiamo creato un passato idealizzato. Ma la nostra agricoltura ha bisogno di ben altre innovazioni

Dovunque io vada – convegni, presentazioni o altro – c’è sempre qualcuno che ha una buona soluzione per i nostri problemi, agricoli e non solo. L’ultima, ma solo in ordine di apparizione, l’ha proposta un agronomo. Durante un convegno ha invitato gli astanti a comprare i pomodori di Manduria, una varietà coltivata in spazi limitati perché poco produttiva: un prodotto di nicchia, quindi potrebbe spuntare un buon prezzo. In aggiunta, per sottolineare la bontà della proposta, l’agronomo ha fatto notare che la vendita del pomodoro di Manduria potrebbe essere incentivata da una campagna stampa concentrata a elogiare la bontà della tradizione contadina contro il logorio della vita moderna. 


Queste proposte producono quasi sempre un’onda emotiva che si somma ad altre onde: accanto al pomodoro di Manduria c’è sempre un altro prodotto di nicchia – quello di nonni e nonne che non ho ancora capito come, in mezzo a tanto lavoro e senza nessuna possibilità di avanzamento sociale, trovavano pure il tempo per preparazioni gustosissime: tra l’altro, per ragioni misteriose, erano tutti bravissimi nel cucinare. 

 

Chi deve mangiare il pomodoro di Manduria, solo i manduriani o una comunità più vasta? C’è da mettere su una logistica niente male

  
Ovviamente a me non è chiaro chi debba mangiare il pomodoro di Manduria, se solo i manduriani o una comunità più vasta. Io temo solo i manduriani, perché se poi devi portare il prodotto nelle città sei costretto a mettere su una logistica niente male, e devi essere disponibile all’occorrenza a forzare la produzione (con tecniche intensive) non fosse altro per il gusto dell’ospitalità: me lo portate pure a me, a Roma, ‘sto pomodoro?  O mi devo fare tutta l’Adriatica per fare il carico lì? Poi, sapete com’è, anche i manduriani a lungo andare si stancano di acquistare il pomodoro tipico. Un problema che riguarda tutti: acquista questo e quest’altro prodotto tipico, alla fine cominci a mettere su battute come: lo vedi quel negozio di frutta e verdura? Se vai lì, spendi come da Bulgari. 

  
Ciò nonostante, proposte così sono diffuse e fanno scopa con quella classica: l’Italia potrebbe vivere solo di turismo. Dichiarazione che tanto esalta gli animi, tranne quando sei costretto ad assistere alla lunga coda di turisti che già dalla mattina presto ingolfa le strade della tua città. Voi dite, abbasso il turista e viva il viaggiatore. Ma diciamo la verità, è difficile distinguere il turista dal più nobile viaggiatore. Anche perché quando viaggiamo noi ci sentiamo Bruce Chatwin, gli altri invece sono sempre dei turisti, in sovrappeso e ignoranti (tranne quando poi ci chiedono un’informazione, che so, sul Pantheon e facciamo scena muta). 
Comunque, per la verità l’agronomo in questione ha anche detto: siccome siamo benestanti, possiamo permetterci di spendere di più. Sottotesto, possiamo accedere a prodotti di nicchia. 


Giusta considerazione. Con un po’ di coraggio, possiamo declinare questo concetto in altri casi. Siccome siamo benestanti possiamo viaggiare e ci possiamo dedicare all’ambientalismo. Siccome non ci sfiora nemmeno l’idea della malnutrizione (ricordiamo che un bambino con lieve malnutrizione ha il doppio della possibilità di morire rispetto a uno ben nutrito, mentre un bambino con grave malnutrizione ha otto volte la possibilità di morire rispetto a uno ben nutrito), anzi semmai abbiamo il problema contrario (vista l’epidemia di obesità), siccome il cibo non ci manca, viviamo più a lungo e possiamo dedicarci alla ricerca culinaria, nonché all’invenzione di storie creative sul cibo, ecc. Per non parlare delle nuove e per molti aspetti sacrosante sensibilità verso gli animali. 


Tutto questo si può fare perché siamo benestanti. Ma qui c’è il nostro dramma moderno: vogliamo tenere tutto insieme senza pensare alle contraddizioni. Il dramma che ne deriva insomma è che pensiamo alle chiose e non al testo, e dunque ci concentriamo sulle nicchie di mercato come soluzione unica e non pensiamo all’industria che ci ha reso più ricchi e moderni. Ci dichiariamo figli delle stelle dell’illuminismo ma per risolvere i problemi ci affidiamo all’alchimia, all’astrologia, alla biodinamica. Pensiamo sì alla natura e a tornare alla terra, ma mica ci costruiamo la capanna con i rami e il cuoio, no, abbiamo in mente una bella casetta ecosostenibile costruita da un bravo architetto e pubblicizzata su quei verticali pieni pubblicità di moda e di profumi. Che dire: pensiamo a far tutto senza tener conto dell’energia che ci vuole per muoversi, produrre, sognare, amare. 

  

Se non era per le tre rivoluzioni agricole, chimica, meccanica, genetica, la pellagra non spariva, il rachitismo nemmeno, il tracoma pure

  
Questo modus cogitandi ha prodotto dunque una grande rimozione, storica e antropologica. Abbiamo dimenticato che siamo diventati più ricchi e più liberi solo qualche decina di anni fa, con il boom economico. Se non era per l’industria e le tre innovazioni agricole (chimica, meccanica, genetica) che hanno permesso di intensificare la produzione (e di liberare più terra: un dato che, se non cementificassimo sempre, potenzialmente sarebbe una vera manna per l’ambiente), la pellagra non spariva, il rachitismo nemmeno, il tracoma pure, e i bambini sarebbero ancora costretti al lavoro in acerbissima età (all’epoca si viveva in case tugurio, ed erano diffusi analfabetismo e degrado, come testimoniato dall’inchiesta parlamentare Jacini, condotta dal 1877 al 1886 per esaminare le condizioni dell’agricoltura nel paese), la mortalità infantile non si abbassava e noi saremo rimasti contadini. 


Se non era per la durissima emigrazione di massa che aveva un unico motivo, cioè la fame (tra i quindici e i venti milioni di italiani partirono nel periodo che va dal 1870 al 1914), le rimesse in Italia non sarebbero arrivate e gli scambi tra culture non avrebbero insegnato a noi italiani a cucinare. Sì, perché l’emigrazione ha inventato la cucina fusion (come la definisce lo storico inglese Dickie). Gli italiani in America cominciarono a maneggiare salame, formaggio, olio d’oliva, braciole di maiale, verdure del proprio orto e maccheroni conditi con la salsa. Alimenti che non erano il cibo dei contadini, bensì il cibo da loro bramato e sognato, e che aveva il dolce sapore della rivalsa verso i possidenti terrieri e verso la fame patita in passato. 


Insomma, questa rimozione ha prodotto un mutamente antropologico. Non quello tanto temuto da Pier Paolo Pasolini: no, al posto del buco nero della fame, abbiamo creato un passato idealizzato. Non che il passaggio tra civiltà contadina e civiltà industriale non abbia portato danni e costi (inquinamento à gogo, ma non è che prima, bisognosi di carbone vegetale com’eravamo, non tagliavamo le foreste), ma affetti dal suddetto bias (il sapere nostalgico) non riusciamo a contestualizzare i nostri drammi e nemmeno cerchiamo di affrontarli con strumenti e programmi innovativi. 


Ammettiamolo: ci rifacciamo al passato anche perché non costa nulla, cosa vuoi che sia una citazione malinconica e accigliata in un convegno: eh, i bei tempi! Momento che, certo, garantisce applausi, ma non aiuta la collettività a impegnarci sul da farsi. Anche in ragione di questo richiamo al passato gridiamo al turismo come soluzione  e alle colture di nicchia come bene collettivo, dimenticandoci che il turismo è un settore trainato, non trainante: senza quelle tanto condannate industrie non si hanno i soldi per viaggiare, se non imbarcandosi come migrante e sperare nell’accoglienza occidentale (poi fra qualche decennio cambierà il gradiente sud-nord e voglio vedere gli italiani con la nostra sbandierata way of life in Asia o in Africa). 


Stessa cosa per l’agricoltura, se non si ha un buon reddito si cerca l’offerta più conveniente per risparmiare al supermercato, e il prodotto di nicchia non sarà in cima ai desideri di nessuno. Il mutamento antropologico (spesso supportato dalle menti migliori della nostra generazione che per un ricordo dei nonni si sono rovinate) ci fa camminare sempre con lo sguardo rivolto al passato. Un’offesa al presente e alla necessaria indagine per capire come andare avanti.


Come cittadini, come classe dirigente, come intellettuali, non importa se da bar o da talk-show, avremmo bisogno di un sano e semplice elettroshock: ricordare il passato senza dolcezze. 


Non tutto è perduto. In tema agricolo sono usciti molti libri interessanti che possono far luce su questa tendenza alla rimozione. Riprendendo il lavoro di storici di tutto rispetto anche se non famosi come Barbero (Montanari per esempio), questi saggi popolari analizzano nel dettaglio il perché di questa rimozione. Prendiamone due: “La cucina italiana non esiste. Bugie e falsi miti sui prodotti e i piatti cosiddetti tipici”, di Alberto Grandi e Daniele Soffiati (Mondadori), e “Non me la bevo. Godersi il vino consapevolmente senza marketing né mode”, di Michele A. Fino (Mondadori). 

  

Scrivono Grandi e Soffiati che l’ipertrofica dimensione “attribuita alla produzione agroalimentare italiana non è la realtà”

  
Il libro di Grandi e Soffiati si apre con un’analisi molto utile (a proposito di vivere solo di esportazioni di cibo). Scrivono: “Nel 2022, il 30 per cento del pil è dovuto all’agroalimentare (seicento miliardi di euro su un pil complessivo di millenovecento miliardi), quindi un terzo della ricchezza italiana dipende dalla produzione e distribuzione del cibo. l’Italia come un’immensa farm, di ultima generazione, intenta a produrre cibo per palati sopraffini, i nostri, sempre tesa a insegnare al prossimo come si campa e come si mangia. L’ipertrofica dimensione rappresentativa attribuita alla produzione agroalimentare italiana non è la realtà. In verità, sommando il settore primario nel suo insieme e l’intera produzione agroalimentare – operazione statisticamente discutibile – si arriva a un valore complessivo che si aggira intorno ai 200 miliardi. Peggio se si analizzano i conti con l’estero (…). Se andiamo a vedere esclusivamente la composizione del settore export agroalimentare – il cui valore si aggira intorno ai 60 miliardi (meno del 10 per cento del totale delle esportazioni italiane) – si scopre che la fetta più grossa è rappresentata da produzioni che l’italiano medio farebbe fatica a identificare con le proprie tradizioni locali, tipo una nota crema spalmabile alle nocciole (il cui primo ingrediente è lo zucchero e il secondo l’olio di palma). Segue un condimento industriale a base di aceto,  mosto e caramello, un vino spumante che si produce in quantità industriali dentro autoclavi in acciaio tra Veneto e Friuli, una famosissima marca di pasta con sede sulla via Emilia eccetera… Per dirla tutta, la casa che produce la suddetta crema spalmabile esporta da sola circa 9 dei 60 miliardi del Made in Italy agroalimentare, mentre il valore complessivo dell’export per quanto riguarda il Parmigiano Reggiano, che il mondo ci invidia, non arriva a 725 milioni”.  


E aggiungiamo anche una riflessione di Michele Fino a proposito di Mario Soldati e del suo celebre programma “Viaggio nella valle del Po”: “La retorica della  genuinità di Soldati è tutta appannaggio del cibo contadino e, quindi, anche del vino contadino. Nell’Italia del boom economico, Soldati non schiva l’ostacolo e propone al proprio pubblico privilegiato un discorso elitista, venato di sfiducia nella modernità, vagheggiante il principio della qualità indissolubilmente legata alla scarsità. Non ci sembra dunque di esagerare se diciamo di intravedere, nel lavoro di Soldati e nelle sue scelte narrative, un potentissimo baluardo pionieristico del modo di parlare di cibo che tuttora impera sui media generalisti Italiani. In primo luogo la sfiducia nella scienza e nella tecnologia che Soldati punta a instillare nello spettatore. Nella settima puntata del ‘Viaggio’ una musica sinistra da film giallo, in cui sia imminente il delitto, accompagna la visita ai moderni macchinari in acciaio inox della Latteria Soresina sorvegliati da operatori in camice, che pastorizzano, condensano ed estraggono la panna per la centrifugazione. Viceversa, un’allegra marcetta da festa paesana mette in risalto le riprese degli uomini in abiti rustici che rompono la cagliata per fare il provolone dentro grandi mastelli di legno, manovrando lunghi spini dal manico anch’esso in legno. Perlopiù senza prendere in benchè minima considerazione la qualità della vita  dei protagonisti del passato mitizzato e nemmeno il ben diverso grado di fatica e possibilità di crescita che caratterizzano nel presente di Soldati, le mansioni di chi deve aver cura di un macchinario che pastorizza il latte o di chi deve lavorare infinite ore ogni giorno, con le mani immerse nell’acqua a 80° C per filare il provolone”. 


Come concludere? Quando vedete in tv questo o quello parlare di agricoltura e turismo con le solite immagini idilliache (quando Salvini o, faccio per dire, Pecoraro Scanio fanno l’elogio del prodotto tipico), sappiate che pescano entrambi da un bucolico immaginario: non salveremo mai il pomodoro di Manduria (che è molto buono) se non affronteremo i problemi dell’industria manifatturiera dell’industria chimica e dell’energia che sostiene tutto, anche il commercio, la politica e i nostri tanto amati talk-show dove, ben pagati, sfoggiamo soluzioni alla buona. 


P.s. A proposito di dilemmi, ma non è che per salvare il pianeta dobbiamo diventare tutti benestanti?

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