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EssilorLuxottica acquista la mitica marca “Supreme” ma ci sono alcuni problemi

Fabiana Giacomotti

Perché il colosso dell’occhialeria ha perso il 4,62 per cento in Borsa dopo l’acquisto di Supreme, mentre chi gli ha venduto il brand ha guadagnato altrettanto. Lezioni dal caso Richemont

Prima di darsi tutti all’entusiasmo per la vendita di Supreme a EssilorLuxottica per 1,5 miliardi di dollari in contanti, forse varrebbe la pena di riflettere sul motivo per il quale, alla notizia dell’accordo, il colosso italo-francese dell’occhialeria abbia perso in Borsa il 4,62 per cento, mentre la VF Corporation che gli ha venduto il brand, acquisito nel 2020 dalla società di private equity Carlyle Group per 2,1 miliardi, abbia aperto le contrattazioni a Wall Street con una crescita parallela. Non vorremmo trarre conclusioni affrettate (anche perché l'ad di EssilorLuxottica, Francesco Milleri, ci ha sempre abituati a sorprese positive), ma ci par di capire che i trader e gli analisti finanziari credano ultimamente sempre meno nelle possibilità dello streetwear di riguadagnare il cosiddetto “hype” di cui godeva qualche anno fa, e che dunque abbiano deciso di premiare il conglomerato americano che si è alleggerito di un peso.

 

Per i pochi che ancora non la conoscessero, Supreme venne fondata a New York dal designer James Jebbia nel 1994: vendeva abbigliamento colorato, perlopiù t shirt e sneaker, destinati agli sportivi per eccellenza di quegli anni, gli skateboarder. Quando aprì il suo negozio in Lafayette Street, l’offerta di abbigliamento era ridotta al minimissimo sindacale di due t shirt: una col logo box rosso Supreme, ormai “iconico” come dicono i modaioli, l'altra con una piccola immagine di Robert De Niro nei panni di Travis Bickle in “Taxi Driver”. Trent’anni dopo, il brand di culto per intenditori è diventato un marchio mainstream con diciassette negozi negli Stati Uniti, in Europa e in Asia e una ricca serie di collaborazioni potenti, la più famosa delle quali venne siglata con Kim Jones all’epoca della sua direzione creativa della linea uomo di Louis Vuitton, otto anni fa: fu un tale successo che, da allora, schiere di amministratori delegati si domandano come mai non sia riuscito a ripeterlo, nonostante l’abbiano provvisto di mezzi e prestigiose cariche, vedi la direzione creativa di Dior Homme e quella di Fendi donna, couture compresa e temporaneamente sospesa.

Nel comunicato ufficiale seguito alla vendita, Jebbia ha dichiarato che l’accordo consentirà a Supreme di concentrarsi sui prodotti e sui suoi clienti, che peraltro non ci sono dubbi siano ancora numerosissimi: chi abita a Milano dalle parti di Brera lo verifica in pratica ogni settimana, visto che a ogni nuova “release”, cioè “rilascio” o “nuova consegna”, fuori dalla boutique di corso Garibaldi si formano lunghe code di ragazzini, tenuti a bada da eleganti cordoni e guardie in completi formali neri: un modo come un altro per dare alle t shirt prodotte un po’ ovunque l’allure, anzi, l’hype, del prodotto di lusso che non sono.

Il punto di questa operazione infatti non è il presente, ma il futuro, il cosiddetto “prospect”. Questa acquisizione ci ricorda infatti da vicino quella che, nel 2018, portò Richemont a pagare, 5 miliardi di euro, quello che era allora il leader dell’e-commerce, Ynap, facendo di Federico Marchetti un uomo immensamente ricco e Johann Rupert a poco a poco più povero: nei giorni scorsi, la multinazionale della gioielleria e degli orologi ha comunicato una crescita minima nel primo trimestre, appesantita da un calo del 15% nelle vendite dell’e-commerce. Non era il suo core business, non ha mai venduto gli orologi da centinaia di migliaia di dollari che Rupert si prefigurava di piazzare con un click. Non bastò nemmeno il servizio consulenziale a casa. Adesso, il comunicato afferma che Richemont è “ancora” alla ricerca di investitori per il sito.

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