l'analisi
Cosa non torna nel Piano Ursula per la transizione energetica
Il Clean Industrial Deal può essere uno strumento importante, ma da solo non basta. Dovrà essere seguito dalla rimozione degli obiettivi vincolanti sulle fonti rinnovabili e dalla rimodulazione del Green Deal, per concedere all’industria europea il tempo di “cambiare pelle”
Dei punti toccati da Ursula von der Leyen durante la presentazione dei suoi orientamenti politici, prima del voto in Parlamento europeo, è centrale il Clean Industrial Deal: un piano a sostegno di industrie innovative, competitive a livello globale, capaci di fornire quanto serve all’implementazione del Green Deal, creando lavoro di qualità. Se finanziato con debito comune europeo e consistenza paragonabile all’Inflation Reduction Act di Biden e soprattutto tecnologicamente neutro, con l’unico obiettivo della decarbonizzazione, potrebbe essere uno strumento straordinario: una Industria 4.0 comunitaria.
Von der Leyen ha dichiarato che esso favorirà investimenti in tecnologie pulite, citando esplicitamente rinnovabili, cattura della CO2 e “tecnologie a basse emissioni”, formula un po’ ipocrita, in uso a Bruxelles da 20 anni, per evitare di nominare il nucleare. Pazienza. L’importante è puntare a decarbonizzare e non a favorire l’una o l’altra tecnologia. E anche riconoscere che il nucleare è la prima fonte di produzione di elettricità dell’Ue (25,1 per cento, dati del Fraunhofer), con le emissioni nel ciclo di vita più basse in assoluto (6 grammi di CO2 per kWh), e soprattutto continua e modulabile. E che pretendere di soddisfare la domanda elettrica europea con sole rinnovabili, significherebbe generarne non meno del 75 per cento con solare ed eolico, intermittenti, stagionali e “sincrone”, con tutto ciò che ne segue in termini di surplus e deficit di produzione e necessari impianti di accumulo di breve e lungo termine. Una soluzione lontanissima dal mix ottimale, tanto più considerando che la domanda elettrica in uno scenario a zero emissioni sarà il doppio di oggi, a causa delle nuove tipologie di consumo.
Per questo è cruciale il riferimento a tutte le tecnologie low carbon, come da tassonomia verde europea, che ora però dovrà essere seguito dalla rimozione degli obiettivi vincolanti di produzione da fonti rinnovabili e dalla rimodulazione del cronoprogramma del Green Deal, per concedere all’industria europea il tempo di “cambiare pelle”. Condizione necessaria perché il Green Deal divenga strumento di crescita economica ed evitarne il definitivo fallimento.
Confligge tuttavia con quest’approccio l’annuncio di una legge europea sul clima, con target del 90 per cento di riduzione delle emissioni al 2040. Dal 1990 a oggi, con grandi sforzi, le abbiamo ridotte del 30 per cento circa, a un tasso medio annuo dell’1,1 per cento. Non un gran risultato, anche perché abbiamo posto obiettivi obbligatori su tecnologie poco efficaci, dirottando su quelle una massa enorme di incentivi, a danno di altre più adatte. Per rendersi conto dell’errore, basta abbassare i paraocchi ideologici e confrontare le emissioni nel settore elettrico in Francia e Germania: da inizio anno a oggi, 30 grammi di CO2 per kWh in Francia e 360 in Germania, 12 volte più alte.
Ridurre le emissioni europee nei prossimi 16 anni sino a -90 per cento significherebbe aumentare di 10 volte il tasso di riduzione medio annuo sin qui registrato. Un salto quantico impossibile a tecnologie invariate. Se vogliamo avere una speranza di azzerare in Ue le emissioni, serve un drastico cambio di rotta tecnologico e gestionale. E siccome sostenibilità economica e sociale sono condizioni necessarie, occorre favorire lo sviluppo di nuove filiere industriali europee, abbandonando la nociva pratica degli obiettivi obbligatori definiti a tavolino.
Speriamo che il Consiglio e il Parlamento diano le giuste indicazioni di rotta e che la nuova Commissione le implementi in modo ottimale, nonostante i chiaroscuri degli annunci di von der Leyen.
Giuseppe Zollino, responsabile Energia e ambiente Azione
tra debito e crescita