Sulle pensioni Giorgetti riscopre le virtù della Fornero

Luciano Capone e Nicola C. Salerno

“Parliamo spessissimo di pensioni e poco della sostenibilità del sistema", dice il ministro. Senza le riforme Maroni, Sacconi e Fornero oggi l'Italia spenderebbe 60 miliardi in più all’anno (3% del pil) e avrebbe molti meno occupati

Ha parlato chiaro Giancarlo Giorgetti nel question-time alla Camera di due giorni fa, e sul tema delle pensioni così tanta chiarezza mancava dal 2011, dal governo Monti e dalla riforma Fornero. Sollecitato dall’on. Luigi Marattin a parlare delle promesse della destra sui pensionamenti anticipati, il ministro dell’Economia ha detto: “Parliamo spessissimo di pensioni, dovremmo cominciare a parlare molto più spesso del trend demografico del paese e se il suo sistema pensionistico è sostenibile”.

È un’inversione a 180 gradi rispetto alle posizioni della Lega: si può anche essere d’accordo in generale sull’esigenza di reintrodurre flessibilità nei requisiti di pensionamento, dice Giorgetti, ma bisogna avere ben chiari i vincoli economici e demografici. Oggi, qualsiasi intervento sulle pensioni non può non collocarsi all’interno del nuovo Patto di stabilità europeo e del Piano strutturale di bilancio di medio termine per il consolidamento dei conti dopo i disavanzi straordinari degli scorsi anni.

La sostenibilità del sistema pensionistico dipende ovviamente dalla sostenibilità delle finanze pubbliche, che subiscono l’impatto dell’invecchiamento della popolazione su più fronti che spesso sono sottovalutati o ignorati da un dibattito monopolizzato dalle pensioni. È d’altronde il problema che aveva già evidenziato nelle considerazioni finali Fabio Panetta: “Da qui al 2040 il numero di persone in età lavorativa diminuirà di 5,4 milioni di unità, malgrado un afflusso netto dall’estero di 170 mila persone all’anno – ha detto il governatore della Banca d’Italia –. Questa contrazione si tradurrebbe (a parità di produttività) in un calo del pil del 13%, del 9% in termini pro capite”.

Il sistema pensionistico non può prescindere da questo vincolo strutturale. Per capire il significato delle parole di Giorgetti è utile guardarsi alle spalle e chiedersi che cosa sarebbe accaduto se non ci fossero state le riforme pensionistiche Maroni (2004), Sacconi (2007) e Fornero (2011). Basta confrontare la proiezione di medio-lungo termine della spesa pensionistica a legislazione vigente con la proiezione con la normativa pre 2004, due scenari elaborati nei recenti documenti della ragioneria Ragioneria generale dello Stato. In assenza delle tre citate riforme, la spesa pensionistica sarebbe stata superiore di circa 2 punti percentuali di pil nel 2015 e di circa 2,5 punti negli anni successivi sino al 2020. Dopo un leggero ridimensionamento sino al 2023, la maggiore spesa si sarebbe attestata a circa 3 punti di pil nel periodo 2025-2033, per poi gradualmente ridursi sino al 2060.

Anche trascurando la maggiore spesa tra il 2004 e oggi, quelle tre riforme appaiono in tutta la loro importanza se si guarda ai prossimi 4-7 anni, il periodo durante il quale dovrà avvenire il consolidamento dei conti secondo le nuove regole fiscali. Il governo avrebbe dovuto fronteggiare un tendenziale con maggiori spese per circa 3 punti di pil: circa 60 miliardi all’anno. È un controfattuale irrealistico, ovviamente, perché l’Italia sarebbe già fallita da tempo.

Si tratta in ogni caso di una cifra enorme, se si pensa a due misure di cui si discute in questi giorni: la conferma nel 2025 del taglio del cuneo fiscale che costa 11 miliardi, e la riduzione delle liste di attesa sanitarie per la quale non sono state sinora trovate risorse nuove e strutturali. Il confronto con il taglio del cuneo e le liste di attesa è calzante anche perché si tratta di due voci di spesa legate all’invecchiamento della popolazione, come le pensioni, ma, diversamente dalle pensioni, miranti a contrastarne gli effetti.

C’è poi un altro elemento, finora troppo sottovalutato, che è emerso soprattutto nell’ultimo anno e che riguarda il mercato del lavoro. Se la popolazione sta invecchiando, ma la forza lavoro e l’occupazione stanno crescendo, è anche per effetto delle riforme pensionistiche. Basta guardare ai dati dell’Istat dell’ultimo anno. Ad aprile – l’ultimo mese di crescita occupazionale – su 84 mila occupati in più 49 mila sono over 50. In un anno, da maggio 2023 a maggio 2024, su quasi mezzo milione di nuovi occupati il 60% ha più di 50 anni, mentre meno del 10% ha meno di 35 anni. Su circa 24 milioni di occupati complessivi, quelli nella fascia d’età sopra ai 50 anni sono ormai 9,6 milioni: il 40% del totale.

Gli effetti della riforma Fornero non sono stati quindi solo quelli immediati sulla finanza pubblica, in termini di risparmio di spesa, ma anche quelli a lungo termine sulla crescita economica, visto che altrimenti ora senza quella riforma strutturale mancherebbero centinaia di migliaia di lavoratori e l’Italia avrebbe un pil potenziale più basso. Le riforme Maroni, Sacconi e Fornero sono state sofferte ma indispensabili, tanto che ora ne raccogliamo i frutti.

Perciò, se si lasciasse il capitolo pensioni fuori da questa e dalle prossime leggi di Bilancio per dare spazio ad altre priorità – lavoro, sanità e istruzione – si farebbe una scelta lungimirante per tutti, anche per gli anziani. Su questa piattaforma sarebbero d’accordo sia Giorgetti sia Marattin, che lo ha stuzzicato. Ma forse entrambi faranno fatica a trovare consensi nei rispettivi campi, di maggioranza e opposizione.