Il “Socialismo del XXI secolo” di Chávez e Maduro è stato peggio di una guerra
Iperinflazione dello Zimbabwe, scarsità di Cuba, esodo di massa della Siria, povertà sopra il 90%, pil crollato del 75%. Il Venezuela era il paese più ricco del Sud America, ora è il più povero: la “Rivoluzione bolivariana” è stata la più grande devastazione economica in tempo di pace
A sinistra, un po’ come per la Rivoluzione bolscevica c’è chi è ancora convinto che Lenin aveva fatto le cose giuste e poi Stalin ha rovinato tutto, così per la Rivoluzione bolivariana c’è chi pensa lo stesso di Hugo Chávez e del suo successore Nicolás Maduro, che si è autoconfermato presidente in elezioni considerate legittime solo dalle peggiori dittature del mondo.
Eppure, sul piano economico, era tutto prevedibile sin dall’inizio. L’ascesa del chavismo e il suo sprofondo sono apparentemente divisi dalla morte di Chávez, ma in realtà appartengono allo stesso ciclo populista, già noto in America latina, e descritto in anticipo negli esiti dall’economista Sebastian Edwards nel 2010 nel libro “Left Behind – Latin America and the False Promise of Populism”.
Ma la caratteristica del Venezuela è che la sua crisi è senza precedenti nell’ultimo mezzo secolo: numeri da paese in guerra per un paese in pace. L’iperinflazione dello Zimbabwe sotto Mugabe; le ristrettezze del Período especial della Cuba dopo il crollo dell’Unione sovietica; il crimine dilagante della Colombia in mano ai narcos; l’emigrazione di massa della guerra civile in Siria; la disoccupazione della Bosnia alla fine della guerra nella ex Jugoslavia; un crollo del pil triplo rispetto alla Grecia della crisi del 2011. Tutto insieme.
Con la differenza, rispetto a questi paesi, che il Venezuela è storicamente una delle nazioni più ricche dell’America latina grazie alle sue risorse naturali: le più grandi riserve petrolifere del mondo. Negli anni 70 il Venezuela aveva di gran lunga il pil pro capite più alto del Sud America, ora è il più basso. L’avvento al potere di Hugo Chávez, ex generale golpista, vincitore delle elezioni sul finire del millennio in un paese fiaccato dalla stagnazione e provato da una crisi indotta dal crollo del prezzo del petrolio, sembrava l’alba di un nuovo avvenire: il Socialismo del XXI secolo, così l’aveva definito il politologo tedesco Heinz Dieterich.
Erano i tempi del movimento No global, dei World Social Forum, della sfida al capitalismo. Chávez ne era diventato il leader politico globale, forte del carisma e della fortuna: arrivò al potere con il petrolio a 10 dollari al barile, minimi storici da decenni, e in pochi anni il prezzo aumentò di sette-otto volte. Un fiume di petrodollari che gli ha consentito di consolidare il potere negli strati sociali più bassi della popolazione, espandendo il bilancio pubblico ed estendendo il controllo dello stato sul settore privato.
A sinistra si riteneva che la crescita fosse dovuta alle politiche eterodosse di nazionalizzazione e redistribuzione, senza rendersi conto che le spese allegre erano possibili solo per il prezzo elevato delle materie prime sui mercati internazionali. In pratica, il No global Chávez non avevano affatto inventato “un’economia alternativa”, era semplicemente il benzinaio della globalizzazione. Come avevano già spiegato a inizio anni Novanta gli economisti Sebastian Edwards e Rudi Dornbusch, analizzando la “macroeconomia del populismo” in diversi casi sudamericani degli anni ’70-’80, alla fine del ciclo questi paesi si ritrovano in recessione e con un’inflazione elevata: in condizioni peggiori rispetto a prima.
Stessa parabola per il Venezuela nel nuovo secolo. Già nel 2013, anno della morte di Chávez, i salari reali erano il 21% più bassi rispetto al 1999, anno della sua presa del potere. Da allora in poi la situazione è precipitata ulteriormente: nel 2017-2018, alla fine del primo mandato di Maduro, il pil crollava a un ritmo del 15% annuo, il deficit di bilancio aveva superato il 30% e l’inflazione il 130.000%. Una catastrofe economica e sociale, pur senza considerare la soppressione delle libertà civili e politiche, senza pari.
Nel 2020, il pil del Venezuela è crollato del 75% rispetto al 2013. Ora il pil pro capite si aggira attorno ai 5 mila dollari l’anno, nel 1954 – settanta anni fa – era circa 10 mila dollari: il doppio. In Venezuela c’è il salario minimo, ma vale una decina di dollari al mese. Eppure, nelle fasi più buie della crisi, pur avendo i soldi non si poteva comprare nulla. Anche la carta igienica è stata per un periodo introvabile, con un valore superiore ai tagli più bassi delle banconote con la faccia di Simón Bolívar. A scaffali e frigoriferi vuoti nei negozi fanno da contraltare le code sterminate per poter comprare quel poco di prodotti contingentati: in questo il “Socialismo del XXI secolo” non è affatto diverso dal socialismo sovietico del XX secolo.
La crisi da economica è diventata umanitaria. Nel 2021 la povertà ha raggiunto il 95% della popolazione, di cui il 75% in povertà estrema. Due terzi della popolazione hanno perso 10 chili di peso. Anche la disuguaglianza è notevolmente aumentata: il Venezuela è diventato il paese più disuguale del continente, nel continente più disuguale del mondo. Secondo l’Unhcr, 7,7 milioni di venezuelani sono emigrati all’estero (un quarto della popolazione): più dei rifugiati siriani dopo la guerra civile (5,5 milioni) e dei rifugiati ucraini dopo l’invasione da parte della Russia (6,5 milioni).
Un livello di devastazione economica e sociale che, appunto, si vede solo negli stati dilaniati dai conflitti militari. È la guerra che il chavismo sta conducendo da decenni contro il popolo venezuelano, e che difficilmente si concluderà con un passaggio pacifico del potere all’opposizione da parte della banda criminale che comanda da un quarto di secolo.