Autonomia differenziata in conflitto col Mef
Con la riforma niente più eventuali risorse in eccesso delle regioni allo stato. Parla Giampaolo Galli, vice presidente dell'Osservatorio sui conti pubblici dell’Università Cattolica
Quando si parla di autonomia differenziata l’obiezione più frequente è che non ci sono sufficienti risorse per garantire i livelli essenziali di prestazioni per i cittadini in tutte le regioni, i cosiddetti Lep. Sarebbe, infatti, una precondizione indispensabile per rendere costituzionale la riforma voluta dal governo Meloni e approvata dal Parlamento ma che tanti malumori sta creando all’interno della stessa maggioranza. Intanto, le opposizioni esultano perché manca poco per raggiungere le 500 mila firme necessarie per indire il referendum abrogativo di una legge che sembra a questo punto scontentare tutti o quasi ma che la Lega considera una vittoria politica. Del merito si parla poco e di solito la discussione che si genera intorno all’idea di rendere finanziariamente autonome le regioni italiane ruota, appunto, intorno al rischio di far aumentare le disuguaglianze tra abitanti del paese e di aggravare il divario tra nord e sud. “Il governo sta abbandonando il Mezzogiorno” è quello che più spesso si sente ripetere dai detrattori della riforma.
Ma esiste anche un’altra ragione importante per avere dei dubbi sull’autonomia differenziata ed è stata messa in evidenza dall’Osservatorio sui conti pubblici dell’Università Cattolica nelle sue recenti analisi firmate da Rossana Arcano, Alessio Capaci e Giampaolo Galli. I tre esperti spiegano che se si applicasse in maniera rigorosa un principio di federalismo finanziario, lo stato non potrebbe appropriarsi delle eventuali risorse in eccesso che si accumulerebbero in qualche regione, che è esattamente ciò che avviene attualmente. E’ Roma, infatti, che detiene saldamente in mano la cassa e la distribuisce (spesso col contagocce) alle regioni e alle altre autonomie locali, avendo come priorità quella di far quadrare il bilancio statale. “In buona sostanza – chiarisce al Foglio Giampaolo Galli che dell’Osservatorio è vice presidente – un sistema centralizzato può non essere efficiente perché deresponsabilizza gli amministratori locali, ma rassicura il ministro dell’Economia e i mercati riguardo alla tenuta dei conti”.
Dunque, questa riforma è paradossalmente contraria all’interesse del Mef, il che, considerando che il capo del dicastero è un esponente della Lega come Giancarlo Giorgetti appare come una contraddizione enorme. Se l’autonomia diventasse realtà, ci sarebbero da un lato i capi di regioni come la Lombardia (Attilio Fontana), e Veneto (Luca Zaia) che puntano a trattenere il più possibile il gettito prodotto sui territori e dall’altro lato il ministro Giorgetti, dello stesso partito, che reclama il gettito. “Non è un mistero – prosegue Galli – che in uno stato indebitato come l’Italia, il ministro dell’Economia cerchi il più possibile di accentrare le risorse e non di decentrarle, ma questo i promotori della legge Calderoli lo sanno già tant’è che in uno degli ultimi passaggi parlamentari è stato inserito un emendamento che rende non automatico che le regioni possano trattenere il surplus fiscale prodotto”.
Insomma, nel progetto di legge è stato inserito un antidoto per neutralizzare il danno ai conti pubblici che l’autonomia differenziata potrebbe generare? “E’ così ma siccome non è sicuro che funzionerebbe, questo resta un punto critico della legge”. Dunque, non c’è da sorprendersi se da Palazzo Chigi traspare a tratti una certa freddezza sulla riforma, che non solo scontenta il Mezzogiorno, con un rischio di consenso elettorale soprattutto per Fratelli d’Italia, che è il partito della premier Giorgia Meloni, ma può creare tensioni sui conti pubblici proprio nel momento in cui stanno per entrare in vigore le nuove regole europee del Patto di stabilità. Se anche non si tenessero in alcuna considerazione le ripercussioni sul Mezzogiorno di un modello che consente alle regioni più ricche di vivere ancora meglio di quelle più svantaggiate, emergerebbe comunque un problema difficile da superare. “L’autonomia differenziata comporta una duplicazione di funzioni e di costi fra lo stato e le regioni e rappresenta un potenziale ulteriore appesantimento degli oneri burocratici per cittadini e imprese” è il parere degli esperti dell’Osservatorio dell’Università milanese per il quale esiste il rischio di uno “stato arlecchino” in cui tutte le regioni hanno funzioni diverse dalle altre, considerando, peraltro, che sono ben 23 le materie sulle quali è consentito rivendicare autonomia. “Per questi aspetti di natura finanziaria, oltre che per le forzature sul piano dell’architettura istituzionale, ci sembra lecito dire che si tratta di un decentramento assai pasticciato”, conclude Galli.