Foto Ansa

L'analisi

Il freno delle big tech, la crisi cinese, il voto Usa e la guerra. Tutti i falò che bruciano le borse

Stefano Cingolani

La tempesta era attesa da tempo. Ma il tonfo partito dal Giappone che ha spazzato la finanza globale ha molte cause. I rischi e le prospettive

Agosto rovente, economia in fiamme? Iperboli e metafore non mancano mai quando saltano i nervi ai mercati finanziari. Non c’è stato panico oggi, ma le tensioni cominciate giovedì hanno fatto fibrillare le piazze di tutto il mondo. La giornata da bollino rosso si era aperta a Tokyo quando da noi era ancora buio ed è finita a New York quando in Europa il sole se ne era già andato, insieme a molti miliardi di dollari, euro, yen, sterline, renminbi. L’epicentro questa volta è in Giappone dove l’indice Nikkei è caduto del 12,5 per cento, il peggior risultato in una sola giornata dal 19 ottobre 1987 quando scattò la crisi finanziaria che mise fine al boom reaganiano. Perché proprio in Giappone? Uno dei motivi immediati è che la Banca centrale ha aumentato i tassi sia pur di poco mentre il pil resta in calo (-2,9  per cento nell’ultimo trimestre). Inoltre l’economia nipponica è molto sensibile alle tensioni nell’area del Pacifico e alle incertezze minacciose che vengono dalla Cina. Così questa mattina le borse europee hanno seguìto il gregge verso la discesa. Mentre nel pomeriggio Wall Street si è allineata (il Dow Jones e il S&P 500 in media sono scesi del 2,5  per cento, peggio il Nasdaq). L’Europa alla fine ha contenuto le perdite (Francorte, Londra e Parigi sono scese in media attorno al 2  per cento). Un po’ peggio Milano (-2,6). Penalizzate in particolare STMicroelectronics (semiconduttori), Tinexta (cybesecurity) ha perso il 5 per cento, molto male Saipem, Erg, Ferragamo, Tim, Enel.
 

È arrivato lo sboom? Dal 2019, prima che arrivasse il crac  della pandemia, l’indice Dow Jones è cresciuto del 51 per cento, l’indice Standard & Poor’s delle prime 500 imprese addirittura dell’83 per cento, il Ftse-Mib che misura il listino di Piazza degli Affari è pressoché raddoppiato dopo il crollo del Covid. Quindi si può dire che una frenata era attesa e può essere salutare. Anzi c’è da chiedersi come mai non sia successo prima. Il fatto è che i re dei denari aspettano sempre il più possibile prima di calare le carte. E quando succede s’innesca la reazione a catena delle vendite. Colpa degli algoritmi, si dice ormai da tempo, colpa di un cambiamento nelle aspettative. Oggi l’opinione corrente in chi muove il denaro, a cominciare dagli strateghi dei grandi fondi d’investimento, è che siamo entrati in una fase di instabilità, probabilmente lunga, perché nel mondo si sono accesi tanti, troppi falò e il rischio che diventino un incendio di vasta portata diventa sempre più concreto.
 

Il primo falò è quello americano. Wall Street era scesa giovedì scorso spinta in basso dai brutti conti delle Big Tech, tutte e sette, anche se su scala diversa. Poi venerdì è arrivato il dato sull’occupazione: i posti di lavoro continuano a crescere, ma a ritmo più blando e il tasso di disoccupazione è salito dal 4,1 al 4,3  per cento. Appena due decimi di punto sono bastati per provocare una consistente ondata di vendite, anche se il pil continua ad aumentare del 2,9. Per il presidente della Federal Reserve di Chicago, Austan Goolsbee, non c’è motivo di attendersi una recessione. Allora si aspettava solo l’occasione per aprire la caverna dell’orso? Il falò a stelle e strisce non riguarda solo la congiuntura economica. Ormai siamo nella fase cruciale della campagna elettorale e a proposito di incertezza e instabilità gli americani non ci fanno mancare proprio nulla. Chiunque vinca, è opinione della comunità finanziaria che ci sarà una nuova ondata di protezionismo: dazi, tariffe, tasse sono nemici del libero scambio di merci, ma ancor più di capitali. A questo si lega il falò monetario che brucia a Washington nel palazzone “piacentiniano” della Federal Reserve. La Banca centrale ha ancora paura dell’inflazione, anche se è al 3 per cento, quindi aspetta prima di ridurre i tassi che sono al 4,3. Un costo del denaro superiore all’andamento dei prezzi è indice di una stretta monetaria. Se Jerome Powell non si sbriga diventerà lui l’incendiario e le borse lo stanno tirando per la giacca.
 

Il falò delle vanità brucia le Big Tech che da sole fanno un quarto di Wall Street. Anche oggi peggio di tutte hanno chiuso Intel, Nvidia e Tesla. Con tutto il bene che si possa dire di Nvidia che si è lanciata a produrre chip per l’intelligenza artificiale, vale davvero 2.480 miliardi di dollari? Tesla che nel 2021 aveva superato i mille miliardi, ha dimezzato il suo valore e poi è risalita a quota 600. Dal 2022 in poi, l’indice Philadelphia dei semiconduttori è cresciuto di ben due volte e mezzo spingendo in alto l’indice Standard & Poor’s. Se torniamo indietro al 2016, dunque prima della pandemia, vediamo un balzo ancor più impressionante dell’indice Philadelphia, da 100 a 700 punti. L’ebbrezza high tech ha prodotto eccessi che prima o poi vanno ridimensionati e lo dice chi crede che siano comunque lì, nell’universo digitale che oggi produce l’IA, il presente e il futuro.
 

Non va sottovalutato il falò cinese. L’ultima copertina dell’Economist è dedicata alla espansione delle grandi compagnie nei paesi in via di sviluppo. Una sfida alle imprese occidentali che va avanti da tempo, tra alti e bassi. Dopo una fase in cui Pechino aveva puntato tutto sulla espansione interna, adesso torna all’economia spinta dall’estero, dove non è colpita dalle contromisure americane?
 

L’economia domestica non va come previsto: nell’ultimo trimestre il pil è cresciuto del 2,8 per cento, altro che 5 per cento obiettivo politico fissato dal partito. Mentre la crisi immobiliare non è affatto risolta. I prezzi al consumo sono piatti, la disoccupazione è al 5 per cento e la bilancia estera ha un sovrappiù pari all’1,2  per cento del pil, cioè come l’Italia. Sono dati ufficiali, quindi da prendere con le pinze. La Cina resta la fabbrica del mondo, ma questo oggi è un problema, non una soluzione. E siamo così al falò no global. Si fa presto a dire deglobalizzazione, la catena produttiva mondiale si è frantumata e ciò sta creando problemi un tempo impensati. Prendiamo l’industria dell’auto che sta andando male sia in Europa sia in America. Tra le cause c’è senza dubbio la difficoltà di approvvigionarsi dei pezzi di ricambio e persino delle materie prime, non solo per le vetture elettriche. Ritardi e aumenti dei costi che creano problemi alla qualità dei prodotti e spingono i consumatori a procrastinare le loro scelte. Difficoltà ci sono nella farmaceutica, nella chimica e un po’ ovunque. Mentre le grandi rotte del commercio mondiale sono messe sotto tensione dalla crisi del Mar Rosso con i continui attacchi degli houthi ai convogli europei e americani.
 

Abbiamo tenuto per ultimo il falò bellico, anche se forse è il più importante. Ormai siamo in guerra, questa è la convinzione generale di chi opera in Borsa. Sono fronti diversi, dall’Ucraina allo Yemen passando per Gaza, ma con una strategia comune chiaramente anti occidentale. È come se il World Trade Center venisse attaccato di nuovo non da terroristi islamici per quanto pericolosi, ma da potenze come Cina, Russia, Iran. Come si fa a non avere i nervi a fior di pelle?

Di più su questi argomenti: