Google e l'Antitrust. Il rischio calcolato e il problema che si apre per i regolatori europei
Il caso è molto più di una semplice battaglia legale. È un banco di prova per il futuro della regolamentazione tech e un possibile punto di svolta per l’intero ecosistema digitale
Il colosso di Mountain View si trova di nuovo sotto i riflettori dell’Antitrust, questa volta per presunte pratiche monopolistiche nel mercato della pubblicità digitale. Amit Mehta, il giudice federale americano che ha presieduto il caso, durato quattro anni, ha stabilito in una sentenza di 286 pagine che Google ha speso miliardi di dollari in accordi esclusivi per mantenere un monopolio illegale sulla ricerca online. La notizia riaccende il dibattito sul potere delle Big tech e sulla loro capacità di influenzare interi settori dell’economia digitale. Ma c’è di più: questo caso potrebbe avere ripercussioni ben oltre i confini di Google, toccando l’intero ecosistema tech e persino la futura regolamentazione europea.
Google, con la sua posizione dominante nel mercato della ricerca online e della pubblicità digitale, non è nuova alle attenzioni delle autorità Antitrust. Sembra però che l’azienda tenda ad affrontare questi rischi con una certa nonchalance, quasi come se fossero un costo operativo inevitabile. E in effetti, guardando i numeri, non è difficile capire perché. Nel 2023 Alphabet (la parent company di Google) ha registrato ricavi per 307,4 miliardi di dollari, con un utile netto di 73,8 miliardi. La divisione Google Search e altre attività pubblicitarie hanno contribuito per 175,3 miliardi, ovvero il 57 per cento del totale. Con cifre di questa portata, anche multe miliardarie – come quella di 4,3 miliardi di euro comminata dall’Ue nel 2018 – diventano quasi trascurabili nel bilancio complessivo. L’approccio di Google potrebbe quindi essere un campanello d’allarme per l’efficacia di normative come l’AI Act europeo. Se le aziende tech più grandi sono disposte a correre il rischio di sanzioni pur di mantenere le loro pratiche, c’è il pericolo concreto che anche le nuove regolamentazioni si rivelino spuntate.
Se da un lato Google sembra infatti quasi impermeabile alle pressioni dell’Antitrust, dall’altro è importante considerare cosa accadrebbe se effettivamente il suo monopolio venisse smantellato. Prendiamo ad esempio il caso di Mozilla e Firefox. Il browser open source, così come molti altri suoi competitor, da anni alternativa di nicchia a Chrome, dipende in larga parte dagli accordi con Google per il motore di ricerca predefinito. Nel 2022, questi accordi hanno portato nelle casse di Mozilla circa 470 milioni di dollari, pari all’86 per cento delle sue entrate totali. Se Google dovesse perdere la sua posizione dominante o fosse costretta a modificare radicalmente le sue pratiche, questi flussi di denaro potrebbero interrompersi, mettendo a rischio l’esistenza stessa di Firefox e dell’intera fondazione Mozilla.
Se il gigante troverà quindi il modo di salvarsi, quindi, potrebbero esserci diversi pesci piccoli che invece possono saltare. Pensiamo ai numerosi sviluppatori di estensioni per Chrome, alle aziende specializzate in seo e marketing digitale, o ancora alle start-up che basano i loro servizi sulle Api di Google. L’intero ecosistema digitale, cresciuto all’ombra del gigante di Mountain View, e che nel bene e nel male ha plasmato l’internet che conosciamo, potrebbe trovarsi improvvisamente su un terreno instabile. Inoltre, ci sono settori apparentemente lontani che potrebbero risentire di un ridimensionamento di Google. Ad esempio, molte istituzioni educative e organizzazioni no profit beneficiano di programmi come Google for Education o Google for Nonprofits, che offrono servizi gratuiti o a costo ridotto. Una Google meno potente potrebbe dover rivedere questi programmi, con conseguenze per migliaia di realtà in tutto il mondo.
La sfida per i regolatori sarà quindi quella di trovare un equilibrio tra questi due aspetti, in un contesto che rischia comunque di essere cambiato per sempre dall’avvento dell’AI, come la neonata SearchGPT di OpenAI. Come si può promuovere l’innovazione e la concorrenza senza causare danni collaterali all’intero settore tech? Come si possono creare alternative valide a Google in settori cruciali come la ricerca e la pubblicità online? Forse, più che concentrarsi solo su sanzioni e divieti, potrebbe essere utile – ma anche molto più dispendioso per una Ue più portata a regolamentare che a creare mercati – pensare a politiche che favoriscano attivamente lo sviluppo di alternative. Investimenti in ricerca e sviluppo, incentivi per start-up innovative, sostegno a progetti open source: queste potrebbero essere alcune strade da percorrere per creare un ecosistema digitale più diversificato e meno esposto alle singole tempeste economico-giuridiche.
Il caso Antitrust contro Google è molto più di una semplice battaglia legale. E’ un banco di prova per il futuro della regolamentazione tech e un possibile punto di svolta per l’intero ecosistema digitale. Mentre i tribunali faranno il loro corso, è importante che policy maker, aziende e società civile inizino a riflettere seriamente su come vogliamo che sia l’internet del futuro: più aperto, più diversificato, ma anche sostenibile per tutte quelle realtà che oggi dipendono, nel bene e nel male, dai giganti della Silicon Valley.